C’era una volta... l’inizio di ogni fiaba che si rispetti!
Anche noi vogliamo diventare narratori: un racconto è immergersi in un mondo tutto nuovo, sconosciuto, ma coinvolgente e accattivante, anche se per poco tempo.
In questa pagina verranno pubblicati i racconti scritti da noi.
I nostri racconti:
Anche noi vogliamo diventare narratori: un racconto è immergersi in un mondo tutto nuovo, sconosciuto, ma coinvolgente e accattivante, anche se per poco tempo.
In questa pagina verranno pubblicati i racconti scritti da noi.
I nostri racconti:
TESTI DA MITI, IL RITORNO DI ACHILLE
-‘Il ritorno di Achille in vita’ ’Achille ritorna il vita’ -‘Il ritorno di Achille’ TESTI DA MITI, L’AVVENTURA DI ODISSEO CON IL CICLOPE
-‘Fuga di Odisseo’ -Il racconto di Polifemo’ -‘Odisseo e il Polifemo’ |
PRIMO GIORNO DI SCUOLA
-'Vita da zaini' TESTI DA IMMAGINI
-‘Il signor Eiffel’ -‘Celestine’ -‘Il buio e la luce’ -‘Il futuro giornalista’ -‘Annette e Alexandre’ -‘La maitre’ -‘Le bagnanti’ -‘La casetta blu’ |
UN TRAUMA NON SUPERATO
-'Una domenica in famiglia' -'Un metro di distanza' LA LAVATRICE STELLARE
MITI SULLA NASCITA DEL CORONAVIRUS
-‘Re Covid’ -‘Chi rompe paga!’ -‘Kakòn’ -‘L’ira di Igea’ -‘L’arcobaleno’ |
Un trauma non superato
Era un banale pomeriggio della primavera del 2052 quando Camilla, mia figlia, mi disse di dover uscire, perché si era data appuntamento con le sue amiche in piazza Duomo. Era una ragazza semplice, carina, alta, snella; i capelli neri e boccolosi le ricadevano dolcemente sulla schiena. Stentavo a crederlo, ma aveva ormai sedici anni.
Le risposi che le avrei dato un passaggio io in macchina, stavo comunque per uscire. La vidi controllarsi e sistemarsi un'ultima volta davanti allo specchio: rivedevo in mia figlia la mia figura di parecchi anni prima, gli stessi movimenti, le stesse posizioni inconsapevoli del corpo. Guardarla era come tornare indietro nel tempo.
Mentre le mia mente vagava, rimpiangendo la giovinezza, ci chiudemmo alle spalle la porta dell’appartamento e ci incamminammo nel corridoio. Mi bloccai e mi voltai per tornare indietro. Camilla mi guardava sconsolata: avevo, come mio solito, dimenticato qualcosa.
Quando però, rovistando invano in casa, le domandai dove fossero finite le mascherine mi guardò con aria stupita. La fantasia aveva volato troppo. Ripensavo alla mia giovinezza e, automaticamente il cervello mi portò a cercare una mascherina, come nei tempi di pandemia.
Dal 2020, anno in cui tutto ebbe inizio, erano cambiate moltissime cose, ma lo scordarmi pezzi uscendo di casa, era rimasto. Scossi la testa, frastornata, e tornammo sui nostri passi, finalmente uscendo nella caotica Milano.
Le risposi che le avrei dato un passaggio io in macchina, stavo comunque per uscire. La vidi controllarsi e sistemarsi un'ultima volta davanti allo specchio: rivedevo in mia figlia la mia figura di parecchi anni prima, gli stessi movimenti, le stesse posizioni inconsapevoli del corpo. Guardarla era come tornare indietro nel tempo.
Mentre le mia mente vagava, rimpiangendo la giovinezza, ci chiudemmo alle spalle la porta dell’appartamento e ci incamminammo nel corridoio. Mi bloccai e mi voltai per tornare indietro. Camilla mi guardava sconsolata: avevo, come mio solito, dimenticato qualcosa.
Quando però, rovistando invano in casa, le domandai dove fossero finite le mascherine mi guardò con aria stupita. La fantasia aveva volato troppo. Ripensavo alla mia giovinezza e, automaticamente il cervello mi portò a cercare una mascherina, come nei tempi di pandemia.
Dal 2020, anno in cui tutto ebbe inizio, erano cambiate moltissime cose, ma lo scordarmi pezzi uscendo di casa, era rimasto. Scossi la testa, frastornata, e tornammo sui nostri passi, finalmente uscendo nella caotica Milano.
Una domenica in famiglia
La casa era un continuo via vai di bambini, adolescenti e i loro genitori; questi ultimi erano certamente più tranquilli dei loro figli, ma erano comunque vivaci.
La domenica tutta la famiglia si riuniva in quel salotto per tutta la giornata; mi occupavo principalmente di dare una mano in cucina, anche se i bambini adoravano sentire le mie storielle.
Non eravamo mai stati una famiglia molto allargata, o almeno non al Nord; visto che ero per metà campana e per metà romana avevo alcuni parenti nelle due regioni.
I miei genitori erano dei nonni apprensivi, come i miei zii: le due coppie avevano in totale sette nipoti, dei quali tre erano miei figli, altri due piccoli di mio cugino e i restanti di mia sorella.
Quel giorno avevamo mangiato molto, la moglie di mio cugino aveva cucinato una crostata ai lamponi che era servita per tenere buoni i bambini dopo cena; in realtà, il termine ‘cena’ è fin troppo generoso per etichettare il tipo di pasto che eravamo soliti consumare dopo il pranzo domenicale; non so con quale stratagemma, mio padre era riuscito a togliere il telecomando dalle grinfie delle piccole pesti e riuscì a mettere il telegiornale.
Stavo svuotando la lavastoviglie, mentre mia sorella finiva di lavare il suo secondogenito, e mio cugino sparecchiava la tavola, quindi nessuno dei tre prestò molta attenzione alla televisione, o almeno non fino alla fine del telegiornale; senza nemmeno aver la coscienza di quello che stavo facendo, presi il telecomando, abbandonato sul divano, e alzai il volume dell’apparecchio televisivo, zittii tutti educatamente e mi misi in attesa; passarono una decina di minuti, nei quali erano state trasmesse una serie di pubblicità ed era iniziato il quiz televisivo post telegiornale, il quale era lo stesso da dieci anni, prima che mia sorella, che mi stava guardando molto confusa, mi chiedesse cosa stessi aspettando; come se fosse la cosa più comune del mondo, le risposi che aspettavo il nuovo ‘dpcm’ e che ero rimasta davvero stupita dal fatto che stessero mandando in onda ‘I soliti ignoti’ piuttosto che il presidente Conte.
Mia madre mi guardò un paio di secondi, come se stesse cercando di capire se fossi seria o meno; accortasi che fossi la serietà in persona, mi fece notare che il presidente si era dimesso venti anni prima e che, ormai, i ‘dpcm’ non venivano emessi dalle sue dimissioni.
Il trauma della pandemia riemergeva dal mio inconscio.
La casa era un continuo via vai di bambini, adolescenti e i loro genitori; questi ultimi erano certamente più tranquilli dei loro figli, ma erano comunque vivaci.
La domenica tutta la famiglia si riuniva in quel salotto per tutta la giornata; mi occupavo principalmente di dare una mano in cucina, anche se i bambini adoravano sentire le mie storielle.
Non eravamo mai stati una famiglia molto allargata, o almeno non al Nord; visto che ero per metà campana e per metà romana avevo alcuni parenti nelle due regioni.
I miei genitori erano dei nonni apprensivi, come i miei zii: le due coppie avevano in totale sette nipoti, dei quali tre erano miei figli, altri due piccoli di mio cugino e i restanti di mia sorella.
Quel giorno avevamo mangiato molto, la moglie di mio cugino aveva cucinato una crostata ai lamponi che era servita per tenere buoni i bambini dopo cena; in realtà, il termine ‘cena’ è fin troppo generoso per etichettare il tipo di pasto che eravamo soliti consumare dopo il pranzo domenicale; non so con quale stratagemma, mio padre era riuscito a togliere il telecomando dalle grinfie delle piccole pesti e riuscì a mettere il telegiornale.
Stavo svuotando la lavastoviglie, mentre mia sorella finiva di lavare il suo secondogenito, e mio cugino sparecchiava la tavola, quindi nessuno dei tre prestò molta attenzione alla televisione, o almeno non fino alla fine del telegiornale; senza nemmeno aver la coscienza di quello che stavo facendo, presi il telecomando, abbandonato sul divano, e alzai il volume dell’apparecchio televisivo, zittii tutti educatamente e mi misi in attesa; passarono una decina di minuti, nei quali erano state trasmesse una serie di pubblicità ed era iniziato il quiz televisivo post telegiornale, il quale era lo stesso da dieci anni, prima che mia sorella, che mi stava guardando molto confusa, mi chiedesse cosa stessi aspettando; come se fosse la cosa più comune del mondo, le risposi che aspettavo il nuovo ‘dpcm’ e che ero rimasta davvero stupita dal fatto che stessero mandando in onda ‘I soliti ignoti’ piuttosto che il presidente Conte.
Mia madre mi guardò un paio di secondi, come se stesse cercando di capire se fossi seria o meno; accortasi che fossi la serietà in persona, mi fece notare che il presidente si era dimesso venti anni prima e che, ormai, i ‘dpcm’ non venivano emessi dalle sue dimissioni.
Il trauma della pandemia riemergeva dal mio inconscio.
Un metro di distanza
Edward era un ragazzo del mio quartiere; aveva all’incirca 27 anni e usciva sempre vestito di tutto punto con giacca e cravatta. Andava sempre di fretta e aveva una strana abitudine: cambiava i suoi piani appena poteva. Spesso lo si vedeva fare le valigie e partire per una qualsiasi meta: dal Giappone all’America, più che poteva e dopo ogni viaggio spariva misteriosamente per all’incirca due settimane.
Non lo vidi spesso, nonostante fosse il mio vicino di casa. Difficilmente si fermava a parlare e, se lo faceva, era perché obbligato dalle circostanze. Non sembrava avare nessun amico nel quartiere; nessuno andava mai a casa sua. Giravano varie voci sul suo conto: alcuni dicevano che fosse un emarginato sociale, altri che fosse in giri loschi e alcuni dicevano addirittura che fosse un fuorilegge che si stava nascondendo dalle autorità.
Un giorno trovai la sua posta nella mia cassetta delle lettere e così dovetti portargliela. Suonai alla sua porta di ritorno da scuola, ma non mi rispose nessuno, nonostante la macchina di Edward fosse parcheggiata nel vialetto. Per ben quattro giorni continuai ad andare a suonare alla sua porta inutilmente. Ammetto che mi arrabbiai parecchio e vidi in quel gesto una grossa mancanza di rispetto. Il quinto giorno decisi di aspettare che egli arrivasse dal lavoro così da poterlo incontrare appena fosse sceso dalla macchina. Aspettai mezzora davanti alla finestra e quando vidi la sua macchina parcheggiare nel vialetto precipitai per porgegli le lettere. Il ragazzo mi guardò quasi spaventato e, presa la posta entrò in casa di corsa. Non era possibile che gli stessero antipatici tutti, in quanto non aveva mai scambiato una parola con i vicini. Il suo era per me un comportamento inspiegabile così, presa dalla curiosità, cercai di conoscerlo un po’ meglio. Ogni volta che lo vedevo era una buona occasione per parlargli, ma raramente la conversazione proseguiva oltre i cinque minuti. Durante questi piccoli incontri, però, potei notare che, se cercavo di avvicinarmi a lui anche solo di un poco, indietreggiava immediatamente, come se non sopportasse l’idea di avermi più vicina di un metro.
Un giorno lo invitai a prendere un tè in casa, ma egli preferì stare sotto il portico, all’aperto, nonostante facesse piuttosto freddo. Bevve il tè in piedi senza sedersi e mantenendo un metro di distanza. Non si trattenne molto, solo il tempo di bere la sua tazza di tè. Non lo vidi più uscire per quattordici giorni. Sembrava scomparso, quasi volatilizzato, ma la macchina era nel vialetto e ciò lasciava supporre che non fosse partito per qualcuno dei suoi viaggi fuori porta. Cercai di contattarlo, ma non ci furono segni di vita. Il quindicesimo giorno lo vidi in giardino con un affare che gli copriva bocca e naso e con le mani coperte da guanti in lattice. Quando gli chiesi perché fosse così bardato, mi rispose che non voleva contagiarmi. Vedendo che non capivo, mi spiegò che molti anni prima, quando era solo un bambino, aveva vissuto un periodo nel quale ci fu una epidemia di virus che colpì tutto il mondo, ‘pandemia’ la definì, che costrinse tutti ad allontanarsi gli uni dagli altri. A causa di questo virus sua madre era morta e a lui era rimasta la paura di essere contagiato e di perdere le persone che amava. Nonostante il virus fosse stato sconfitto gli era rimasta la paura. Aveva tentato di andare da una psicoterapeuta, ma non aveva risolto molto. Solo una cosa lo aiutava: stare a distanza dalle persone. Gli bastava un metro per essere sicuro. Quando gli chiesi perché continuasse a viaggiare, mi rispose che durante gli anni della pandemia non si poteva viaggiare quindi non aveva potuto vedere il mondo come gli sarebbe piaciuto fare, così cercava di vivere il momento e di partire in qualsiasi occasione per recuperare quelle perdute. Viaggiava sempre con la mascherina e i guanti e, quando tornava, si isolava per quattordici giorni per essere sicuro di non essersi contagiato, poi tornava alla vita di tutti i giorni.
Dopo quelle rivelazioni capii tutto e da quel racconto nacque una bellissima amicizia, sempre ad un metro di distanza.
Edward era un ragazzo del mio quartiere; aveva all’incirca 27 anni e usciva sempre vestito di tutto punto con giacca e cravatta. Andava sempre di fretta e aveva una strana abitudine: cambiava i suoi piani appena poteva. Spesso lo si vedeva fare le valigie e partire per una qualsiasi meta: dal Giappone all’America, più che poteva e dopo ogni viaggio spariva misteriosamente per all’incirca due settimane.
Non lo vidi spesso, nonostante fosse il mio vicino di casa. Difficilmente si fermava a parlare e, se lo faceva, era perché obbligato dalle circostanze. Non sembrava avare nessun amico nel quartiere; nessuno andava mai a casa sua. Giravano varie voci sul suo conto: alcuni dicevano che fosse un emarginato sociale, altri che fosse in giri loschi e alcuni dicevano addirittura che fosse un fuorilegge che si stava nascondendo dalle autorità.
Un giorno trovai la sua posta nella mia cassetta delle lettere e così dovetti portargliela. Suonai alla sua porta di ritorno da scuola, ma non mi rispose nessuno, nonostante la macchina di Edward fosse parcheggiata nel vialetto. Per ben quattro giorni continuai ad andare a suonare alla sua porta inutilmente. Ammetto che mi arrabbiai parecchio e vidi in quel gesto una grossa mancanza di rispetto. Il quinto giorno decisi di aspettare che egli arrivasse dal lavoro così da poterlo incontrare appena fosse sceso dalla macchina. Aspettai mezzora davanti alla finestra e quando vidi la sua macchina parcheggiare nel vialetto precipitai per porgegli le lettere. Il ragazzo mi guardò quasi spaventato e, presa la posta entrò in casa di corsa. Non era possibile che gli stessero antipatici tutti, in quanto non aveva mai scambiato una parola con i vicini. Il suo era per me un comportamento inspiegabile così, presa dalla curiosità, cercai di conoscerlo un po’ meglio. Ogni volta che lo vedevo era una buona occasione per parlargli, ma raramente la conversazione proseguiva oltre i cinque minuti. Durante questi piccoli incontri, però, potei notare che, se cercavo di avvicinarmi a lui anche solo di un poco, indietreggiava immediatamente, come se non sopportasse l’idea di avermi più vicina di un metro.
Un giorno lo invitai a prendere un tè in casa, ma egli preferì stare sotto il portico, all’aperto, nonostante facesse piuttosto freddo. Bevve il tè in piedi senza sedersi e mantenendo un metro di distanza. Non si trattenne molto, solo il tempo di bere la sua tazza di tè. Non lo vidi più uscire per quattordici giorni. Sembrava scomparso, quasi volatilizzato, ma la macchina era nel vialetto e ciò lasciava supporre che non fosse partito per qualcuno dei suoi viaggi fuori porta. Cercai di contattarlo, ma non ci furono segni di vita. Il quindicesimo giorno lo vidi in giardino con un affare che gli copriva bocca e naso e con le mani coperte da guanti in lattice. Quando gli chiesi perché fosse così bardato, mi rispose che non voleva contagiarmi. Vedendo che non capivo, mi spiegò che molti anni prima, quando era solo un bambino, aveva vissuto un periodo nel quale ci fu una epidemia di virus che colpì tutto il mondo, ‘pandemia’ la definì, che costrinse tutti ad allontanarsi gli uni dagli altri. A causa di questo virus sua madre era morta e a lui era rimasta la paura di essere contagiato e di perdere le persone che amava. Nonostante il virus fosse stato sconfitto gli era rimasta la paura. Aveva tentato di andare da una psicoterapeuta, ma non aveva risolto molto. Solo una cosa lo aiutava: stare a distanza dalle persone. Gli bastava un metro per essere sicuro. Quando gli chiesi perché continuasse a viaggiare, mi rispose che durante gli anni della pandemia non si poteva viaggiare quindi non aveva potuto vedere il mondo come gli sarebbe piaciuto fare, così cercava di vivere il momento e di partire in qualsiasi occasione per recuperare quelle perdute. Viaggiava sempre con la mascherina e i guanti e, quando tornava, si isolava per quattordici giorni per essere sicuro di non essersi contagiato, poi tornava alla vita di tutti i giorni.
Dopo quelle rivelazioni capii tutto e da quel racconto nacque una bellissima amicizia, sempre ad un metro di distanza.
Era una splendida giornata primaverile; i raggi del sole illuminavano il grande atrio dell’ospedale affollato.
Avevo appena superato i controlli e stavo ancora cercando di eliminare l’appiccicume del gel igienizzante dalle mani, mentre scrutavo la stanza alla ricerca delle indicazioni per il reparto maternità; fortunatamente, per una volta, mi ero recata in ospedale per accogliere una gioia e non per apprendere una cattiva notizia.
Continuai a camminare con il sorriso coperto dalla mascherina, ancora obbligatoria nei luoghi molto affollati; era triste il fatto che fossi più abituata a sentirne la consistenza, che mi rendeva difficile la respirazione, che a non sentirla.
Con questo pensiero per la testa mi avvicinai al banco dell’accettazione centrale in mogano illuminato dai faretti a led che pure nel primo pomeriggio erano accesi; anche il pavimento in laminato bianco rifletteva la luce ed inevitabilmente il mio sguardo cadde sulla grande parete in pietra, mi raggelai.
In ogni ospedale, collocata all’ingresso, era stata posizionata una parete sulla cui superfice erano incisi i nomi di tutti morti per covid di quella struttura; era un magnifico gesto per commemorarne il ricordo e per dimostrare al mondo che quei numeri che ogni sera sentivamo al telegiornale, quando c’era la conta dei morti, avevano un’identità, una famiglia, una vita.
Faceva male ricordare, quante esperienze, investimenti, ma soprattutto vite aveva stroncato quella malattia che all’improvviso era comparsa e aveva congelato tutto; a volte sembrava ancora di essere a febbraio del 2020 quando l’Italia si era resa conto della gravità della situazione.
Prima credevamo fosse troppo lontana per raggiungerci, figuriamoci se una malattia cinese avrebbe potuto arrivare a noi, poi la notizia del paziente zero e ancora credevamo di poter controllare tutto, fino all’avvento della prima quarantena; i camion militari che trasportavano i morti fecero da spartiacque tra lo scetticismo e la consapevolezza: l’Italia fu divisa in zone per poi riuscire, finalmente, ad arrivare ad oggi.
Tutta la popolazione era stata segnata, in modo diverso certo, ma sicuramente totale; ancora oggi viene da ridere vedendo il lievito e la farina in ricordo di quando era nata in tutti gli italiani una dote culinaria inimmaginabile.
Pensando a questo, mi avviai verso la camera e mi stupii al pensiero che racconteremo ai nostri figli come era la vita in quel periodo, esattamente come noi chiedevamo ai nostri nonni di raccontarci della guerra.
Il mondo intero, anche a due anni di distanza, si porta dietro i traumi di quel fatidico anno bisestile, tutti andiamo ancora in giro con l’amuchina e una mascherina di scorta per sicurezza.
Ognuno ha un trauma differente: c’è chi non ha più la capacità di relazionarsi con il mondo esterno e chi non riesce più a stare in casa; alcune persone sono terrorizzate dal contatto fisico, mentre altre lo bramano; però, il covid ci ha insegnato anche ad apprezzare la bellezza di una semplice passeggiata all’aperto e lo splendore di una cena con le persone più care tutte riunite.
Il forte vociare della mia famiglia, proveniente dalla stanza ospedaliera, mi riscuote; prendo un bel respiro e il classico odore di disinfettante mi pervade le narici.
L’avremmo superato, poiché è questa la più grande dote dell’umanità: la capacità di rialzarsi anche quando tutto va per il peggio; siamo capaci di riassemblare i pezzi perché è vero che possiamo odiarci, differenziarci per le varie caratteristiche personali, però alla fine, quando abbiamo bisogno di sostenerci l’un l’alto, quando la posta in gioco è davvero alta lo facciamo sempre; basti pensare ai mitici canti sui balconi creati apposta per far sentire la popolazione meno sola. Sono il perfetto esempio di come siamo in grado di sopravvivere e adattarci, sempre.
Testi da miti
Il sostantivo greco μũθος indica la ‘narrazione’, dapprima orale, di storie fantastiche. Poiché i miti avevano delle varianti regionali o locali, così ci siamo sentiti ‘autorizzati’ a reinventarli e a ‘farli sviluppare’ per altre strade.
E se Odisseo non riuscisse ad ingannare Polifemo? E se Achille avesse realizzato il suo desiderio, e fosse quindi tornato in vita?
Ecco dunque alcune rielaborazioni fantasiose.
Il sostantivo greco μũθος indica la ‘narrazione’, dapprima orale, di storie fantastiche. Poiché i miti avevano delle varianti regionali o locali, così ci siamo sentiti ‘autorizzati’ a reinventarli e a ‘farli sviluppare’ per altre strade.
E se Odisseo non riuscisse ad ingannare Polifemo? E se Achille avesse realizzato il suo desiderio, e fosse quindi tornato in vita?
Ecco dunque alcune rielaborazioni fantasiose.
Il ritorno di Achille
Achille torna in vita
La luce che filtrava dalla finestrella mi colpiva il viso e le palpebre chiuse.
Non avevo idea di dove mi trovassi, sentivo solamente sotto di me un giaciglio di stracci luridi che dovevano essere stati il mio letto per la notte; lentamente, mi sforzai di aprire gli occhi doloranti come il resto del mio corpo e mi accorsi di essere in mezzo al fieno umido e maleodorante.
Provai ad alzarmi, ma un forte capogiro mi costrinse a risedermi in tutta fretta, allora mi accorsi degli innumerevoli graffi e della sporcizia che mi ricopriva da capo a piedi. Iniziai a scrutare quella che mi pareva una stalla, in cerca di qualcosa che determinasse dove mi trovavo; cercavo i finimenti e le selle dei cavalli in modo capire lo status del padrone della stalla, ma non trovai molto se non le mucche e le pecore affamate e rumorose.
Il rumore degli zoccoli che si avvicinavano mi risvegliò dallo stato di stordimento in cui ero caduto mentre osservavo la semplice e decadente architettura in legno e pietra.
Il portone d’entrata si aprì e ne entrò un massiccio uomo a cavallo. Doveva far parte della piccola nobiltà, uno di quei lontani cugini di quarto grado che si potevano permettere di essere invitati ai banchetti di tutti, ma di cui nessuno ricordava il nome.
Mi studiò con un’occhiata arcigna e mi urlò di iniziare a inforcare il fieno per dar da mangiare agli animali, perché non mi dava vitto e alloggio per starmene lì a perdere tempo; in quel momento compresi che il desiderio da me espresso alla mia morte si era avverato.
Iniziai dunque a svolgere tutte le azioni che in precedenza avevo visto fare dai miei schiavi: spostare il fieno con il vecchio e ruvido forcone che stingevo forte tra le mani, spalare il maleodorante letame d’animale e sfamare le bestie solo per un misero tozzo di pane freddo e una brocca d’acqua. Sarei tornato volentieri alla mia vita precedente solo per valorizzare maggiormente quei poveri uomini che mi avevano servito.
Il tempo passava e la mia esistenza rimaneva misera e vuota, però, giorno dopo giorno, vivevo; certo nel più miserabile dei modi, però lo facevo; è proprio vero che non capisci il valore di una cosa fin quando non la perdi.
Stremato, dopo un’ennesima giornata intensa di lavoro, mi addormentai sul mio scomodo giaciglio con il sorriso sulle labbra, sapendo che il giorno dopo ci sarebbe stata una nuova alba.
Un violento scossone mi svegliò, ma subito richiusi gli occhi. Non era possibile, era solo un incubo, non potevo essere tornato negli inferi dopo anni di nuova vita sulla terra.
Era bastato l’odore intenso dello zolfo per svelarmi il luogo in cui mi trovavo: non riuscivo neanche più a stringere la terra rossa ai miei piedi. Il panico si impossessò di me, non riuscivo a capire perché darmi la possibilità di vivere nuovamente per poi strapparmela dalle mani.
Nel momento esatto in cui processai quel pensiero un lampo attraversò il cielo rosso e allora capii che il sogno era stato quello di vivere.
Emettei un grido così potente e frustrato che risuonò nell’intero oltre tomba per giorni e giorni.
Ritorno di Achille in vita
Achille, dopo aver espresso il suo desiderio di tornare in vita anche come servo, fu ascoltato dagli dei. Improvvisamente si ritrovò per una strada di campagna, con solo uno straccio addosso. Proprio in quel momento passava di lì un carro guidato da un contadino e trascinato da un mulo. L’agricoltore si fermò a guardare Achille e chiese con voce rauca chi fosse. Egli rispose di essere un umile vagabondo in cerca di un padrone per cui lavorare: era diventato basso e più vecchio, aveva una barba ispida e sia occhi che capelli scuri. Il contadino invece era alto, di età avanzata: portava una tunica, un cappello di paglia e dei sandali. L’uomo chiese ad Achille se avesse voluto lavorare per lui, e l’eroe tornato dagli inferi accettò. Fu portato in una casa di legno piccola ed angusta. Per un po'; di tempo Achille lavorò per il contadino con grande impegno, eseguendo tutti gli incarichi che gli venivano assegnati; in cambio riceveva cibo e ospitalità. Un giorno passò di lì un ricco mercante e, vedendo la tenacia con cui Achille lavorava, decise di assoldarlo come suo servo. Appena l’eroe accettò morì improvvisamente; la sua anima ridiscese negli inferi, poiché era scappato dalla condizione che gli dèi avevano rispettato per farlo tornare in vita.
Il ritorno di Achille
Improvvisamente Achille si svegliò e non era più nell’Ade, ma in una piccola stanza, era sdraiato su uno straccio e intorno a lui c’erano due persone, probabilmente i suoi genitori. Il suo desiderio si era quindi realizzato, era di nuovo in vita, anche se figlio di schiavi e lavorava tutti i giorni nei campi per il suo padrone. Achille crebbe, ma al contrario della sua precedente vita, rimase magro e debole, non correva più veloce come una volta e non era rispettato come nella vita precedente, tuttavia preferiva quella misera vita, piuttosto che un’eternità nell’Ade. La casa era modesta e composta da tre piccole stanze; i muri erano spogli e spesso ricoperti di muffa; la cucina aveva una piccola dispensa con dentro poco cibo che a volte veniva rubato dai topi, che abbondavano da quelle parti. Mentre il padrone e i suoi figli dormivano sopra dei letti di paglia in una piccola stanza, Achille dormiva sdraiato sul pavimento. Passarono gli anni e Achille sostituì i suoi genitori nel duro lavoro dei campi, il giorno in cui morì anche il suo padrone, Achille si chiese cosa sarebbe accaduto una volta morto: forse Ade gli avrebbe dato una nuova vita oppure sarebbe rimasto nell’Ade per l’eternità. Questa domanda angosciò a lungo Achille, che nel frattempo restò a servire il figlio del suo padrone Un inverno particolarmente freddo, Achille si ammalò e in quei giorni tornarono ad angosciarlo le domande sul suo destino, a cui trovò risposta pochi giorni dopo. La sera si sentì appesantire gli occhi e si trovò sdraiato su un pavimento di roccia e non si sentiva più stanco né infreddolito, allora realizzò con orrore di essere nuovamente morto e questa volta per sempre. La sua prima vita era stata gloriosa, anche se breve, gli aveva permesso di vivere tante emozioni da eroe, invece, in questa seconda vita morì anziano, però non fece che faticare.
L'avventura di Odisseo con il Ciclope
Fuga di Odisseo
Polifemo gettò un grido pauroso; tutta la grotta risuonò e noi fuggimmo atterriti. Con le mani si strappò il palo dall’occhio, ma il sangue fuoriusciva veloce e dopo poco il Ciclope perse i sensi e cadde a terra con un gran tonfo.
Il masso che bloccava l’entrata dell’antro era troppo pesante da spostare per delle braccia umane, quindi eravamo intrappolati senza via di scampo. L’unica possibilità per fuggire, seppur richiedesse molto tempo, era scavare un tunnel che ci avrebbe portato al di fuori della grotta. Lavorando pietre e legni, riuscimmo a realizzare degli attrezzi per scavare: ci mettemmo quindi all’opera. Il lavoro era lungo, ma non perdemmo la speranza. Per stare in forze bevevamo il latte delle pecore femmine, mentre ci nutrivamo con la carne dei maschi.
Dopo una settimana di scavo faticoso e costante, erano morti già due uomini a causa della scarsità del cibo. Intanto il Ciclope non aveva manifestato segni di vita, quindi eravamo certi che fosse morto: probabilmente aveva preso un brutto colpo alla testa cadendo quando era svenuto. Ogni giorno sentivamo sempre più la mancanza dell'aria, ma non ci fermammo e continuammo a scavare; ormai non mancava molto. Dopo qualche giorno, quando le forze erano quasi del tutto esaurite, vedemmo uno spiraglio di luce: ce l’avevamo fatta, eravamo riusciti a uscire dalla grotta. Così, sani e salvi, raggiungemmo i compagni che erano rimasti a riva.
Il racconto di Polifemo
Mi ero appena addormentato quando sentii un oggetto affilato e bollente trapassarmi l’occhio. Inizialmente non sentii altro che delle voci concitate e spaventate allo stesso tempo e passi veloci che si allontanavano. Il dolore arrivò dopo: urlai portando le mani al volto, estrassi il palo di legno che mi aveva reso cieco dall’occhio e cercai di afferrare i responsabili.
Questi però furono svelti e silenziosi a tornare negli antri della caverna.
Il giorno dopo per fare in modo che non uscissero dalla grotta mentre io portavo le mie pecore al pascolo, spostai di poco il grande macigno che teneva bloccato l’ingresso della caverna e controllai le pecore una ad una prima di farle uscire.
Feci lo stesso il giorno dopo, ma non mi accorsi che gli astuti uomini si erano nascosti aggrappandosi alla pancia delle pecore, sfuggendo così al mio controllo. Mi accorsi però che erano riusciti a scappare quando la loro nave prese il largo e il loro comandante mi urlò qualcosa.
Urlai a mia volta cercando il sostegno degli altri ciclopi, che accorsero subito al mio richiamo. Indicai il punto da dove era arrivata la voce di Nessuno e cercai di far capire loro che esso mi aveva reso cieco e che ora cercavo vendetta.
Tutti i ciclopi sollevarono da terra degli enormi macigni e li scagliarono in direzione della nave.
Le onde però si alzarono all’improvviso bloccando e distruggendo i massi. Questo perché Poseidone, il signore del mare, seguiva la legge dell’ospitalità del fratello e considerava oltraggioso il comportamento del figlio Polifemo. Per questo guidò Odisseo e i suoi compagni per rotte sicure fino ad Itaca.
Odisseo e Polifemo
Odisseo era molto astuto, ma non aveva dalla sua parte il dio del mare, e il suo smisurato orgoglio e senso di potere lo facevano agire troppo frettolosamente.
Mentre il ciclope dormiva profondamente e Odisseo con i suoi compagni preparava una lunga asta appuntita per accecare il mostro, Poseidone apparve in sogno al figlio Polifemo per avvertirlo del pericolo imminente: non avrebbe lasciato che un semplice uomo come Odisseo rendesse cieco il suo potente figlio.
Il ciclope, adirato dopo le parole del padre, si svegliò di scatto, furioso. Nonostante fosse ancora intontito dal vino speziato bevuto prima di addormentarsi, la sua mano era guidata dal dio del mare, suo padre. Con violenza afferrò il bastone appuntito dalle mani degli uomini di Odisseo e lo spezzò con facilità.
Alla vista della rabbia del mostro, Odisseo e i suoi videro il loro abile piano di fuga e la speranza di tornare in patria sgretolarsi; cercarono di fuggire, nascondendosi tra i cesti di formaggio e le pecore del gregge, ma non potevano scappare a lungo da Polifemo e da Poseidone che lo guidava.
I primi uomini che furono afferrati dal ciclope vennero divorati senza pietà, ancora urlanti e con un'espressione di terrore dipinta sul viso; Polifemo inghiottì tutti i compagni di Odisseo, fino ad arrivare a lui.
Poseidone, per vendicarsi, tramutò l'eroe in una grossa capra lo legò per sempre al quell’isola, costringendolo a non poter fuggire, e la donò al figlio ciclope. Nonostante la punizione del dio, Odisseo, tramutato in animale, conservò il suo intelletto e, vivendo nella grotta del ciclope senza via di fuga, avvertiva i marinai che sostavano sull'isola di andarsene al più presto.
Testi da immagini
Il signor Eiffel
Il mio ultimo giorno a Parigi mi concentrai sugli odori, a me ormai tanto familiari e ordinari, sui rumori, nei quali era immerso ormai quotidianamente cercando di imprimermi nella memoria il maggior numero di sensazioni che questa città mi trasmetteva. Il cielo era di un bel colore azzurro, più acceso del solito, i caminetti sui palazzi accennavano il colore grigiastro del fumo, che tuttavia non disturbava la vista. I palazzi di Parigi ho sempre pensato avessero qualcosa di poetico, che fossero ogni giorno in grado di risultare moderni, nuovi, nonostante la loro antichità. Davano un aspetto pulito allo spazio circostante, come se nella loro forma ingombrante si conservassero perfettamente, anche grazie al loro lato estetico. Parigi in realtà, era interamente una città poetica, comprese le persone, gli abitanti, i turisti e i vagabondi. Le carrozze davano quel tocco in più di leggera confusione, che prima di andare a New York non avevo mai provato realmente. Ero un ingegnere, e mi dedicavo al mio lavoro con grande attenzione e scrupolo, dopo anni di studio. Avevo aperto la mia officina e le richieste di costruzione o intervento erano tantissime. Il mio piccolo studio - o officina - era in uno di quei piccoli e graziosi quartieri di Parigi, dove ideavo le mie opere, che ben presto sarebbero state notate ovunque. Il governo mi aveva commissionato dei lavori nelle colonie francesi, così in poco tempo diventai abbastanza conosciuto nelle varie società ingegneristiche, abbastanza da contribuire anche alla realizzazione di varie costruzioni all’estero. Faccio il modo di mantenere nella mia anima le suggestioni di questa città come una fonte di ispirazione, come qualcosa da mostrare realmente agli occhi dell’umanità, ora che inizierò la mia esperienza lavorativa in America, dedicandola interamente non solo la composizione di una statua inanimata, forse anche insignificante, ma anche a vivere, attraverso i ricordi, l’arte della mia città, che un giorno renderò ancora più unica grazie a qualcosa di complesso, pensato in abbondanza, ma di estremamente innovativo e classico che rispecchi Parigi nella sua magnificenza.
Il mio ultimo giorno a Parigi mi concentrai sugli odori, a me ormai tanto familiari e ordinari, sui rumori, nei quali era immerso ormai quotidianamente cercando di imprimermi nella memoria il maggior numero di sensazioni che questa città mi trasmetteva. Il cielo era di un bel colore azzurro, più acceso del solito, i caminetti sui palazzi accennavano il colore grigiastro del fumo, che tuttavia non disturbava la vista. I palazzi di Parigi ho sempre pensato avessero qualcosa di poetico, che fossero ogni giorno in grado di risultare moderni, nuovi, nonostante la loro antichità. Davano un aspetto pulito allo spazio circostante, come se nella loro forma ingombrante si conservassero perfettamente, anche grazie al loro lato estetico. Parigi in realtà, era interamente una città poetica, comprese le persone, gli abitanti, i turisti e i vagabondi. Le carrozze davano quel tocco in più di leggera confusione, che prima di andare a New York non avevo mai provato realmente. Ero un ingegnere, e mi dedicavo al mio lavoro con grande attenzione e scrupolo, dopo anni di studio. Avevo aperto la mia officina e le richieste di costruzione o intervento erano tantissime. Il mio piccolo studio - o officina - era in uno di quei piccoli e graziosi quartieri di Parigi, dove ideavo le mie opere, che ben presto sarebbero state notate ovunque. Il governo mi aveva commissionato dei lavori nelle colonie francesi, così in poco tempo diventai abbastanza conosciuto nelle varie società ingegneristiche, abbastanza da contribuire anche alla realizzazione di varie costruzioni all’estero. Faccio il modo di mantenere nella mia anima le suggestioni di questa città come una fonte di ispirazione, come qualcosa da mostrare realmente agli occhi dell’umanità, ora che inizierò la mia esperienza lavorativa in America, dedicandola interamente non solo la composizione di una statua inanimata, forse anche insignificante, ma anche a vivere, attraverso i ricordi, l’arte della mia città, che un giorno renderò ancora più unica grazie a qualcosa di complesso, pensato in abbondanza, ma di estremamente innovativo e classico che rispecchi Parigi nella sua magnificenza.

Celestine
E ero lì ad ammirare la mia bellissima Celestine, che se ne andava con passo tranquillo, ma svelto, da quella che oramai per otto lunghi e felici anni era stata la sua casa. Ci eravamo amati per tanto tempo ed avevamo vissuto una bella vita insieme, ma ogni cosa bella ha un fine e quello era il nostro; non mi spiegò accuratamente perché se ne andò, non seppi mai se avesse un altro uomo che la amasse più di me o se semplicemente voleva andarsene in cerca di nuove avventure. Era una donna di media statura circa un metro e settanta dalla pelle candida come la porcellana con occhi azzurri che sapevano arrivare al cuore e capelli dorati che le scendevano fino alle spalle: ebbi l’opportunità di vederla coi capelli sciolti poche volte, dato che li raccoglieva sempre in un rigido e ordinato chignon che spesso ornava con fiocchetti celesti di raso.
Quel giorno portava un magnifico abito color ruggine che le donava particolarmente. Ogni vestito le stava a pennello; portava anche un cappellino dello stesso colore dell’abito per proteggersi dal sole di luglio. Il suo profumo di cannella e vaniglia mi aveva inebriato in quel nostro ultimo abbraccio, quel profumo mi faceva sentire a casa. Prima di chiudere la porta, mi disse che forse sarebbe tornata per ricominciare da capo la nostra storia d’amore ed era grazie a quella affermazione che l’amore che provavo per lei non si spense come una candela accesa che viene a contatto col vento. Cercavo di non osservarla troppo, poiché già alcune mie lacrime salate avevano minacciato di uscire e io le avevo respinte. Per distrarmi osservavo le bellissime vie della mia amata Rouen, la città dove ero nato, cresciuto e dove avevo trovato l’amore. Mi abbandonai alla bellissima vista della mia città e mi sedetti sulla comoda poltrona rossa in velluto, dove Celestine si sedeva ogni sera e si metteva a lavorare all’uncinetto, una delle sue più grandi passioni. Ogni cosa che ci fosse in quella casa, ogni cosa che io guardassi o odorassi mi faceva pensare a lei, Celestine.
E ero lì ad ammirare la mia bellissima Celestine, che se ne andava con passo tranquillo, ma svelto, da quella che oramai per otto lunghi e felici anni era stata la sua casa. Ci eravamo amati per tanto tempo ed avevamo vissuto una bella vita insieme, ma ogni cosa bella ha un fine e quello era il nostro; non mi spiegò accuratamente perché se ne andò, non seppi mai se avesse un altro uomo che la amasse più di me o se semplicemente voleva andarsene in cerca di nuove avventure. Era una donna di media statura circa un metro e settanta dalla pelle candida come la porcellana con occhi azzurri che sapevano arrivare al cuore e capelli dorati che le scendevano fino alle spalle: ebbi l’opportunità di vederla coi capelli sciolti poche volte, dato che li raccoglieva sempre in un rigido e ordinato chignon che spesso ornava con fiocchetti celesti di raso.
Quel giorno portava un magnifico abito color ruggine che le donava particolarmente. Ogni vestito le stava a pennello; portava anche un cappellino dello stesso colore dell’abito per proteggersi dal sole di luglio. Il suo profumo di cannella e vaniglia mi aveva inebriato in quel nostro ultimo abbraccio, quel profumo mi faceva sentire a casa. Prima di chiudere la porta, mi disse che forse sarebbe tornata per ricominciare da capo la nostra storia d’amore ed era grazie a quella affermazione che l’amore che provavo per lei non si spense come una candela accesa che viene a contatto col vento. Cercavo di non osservarla troppo, poiché già alcune mie lacrime salate avevano minacciato di uscire e io le avevo respinte. Per distrarmi osservavo le bellissime vie della mia amata Rouen, la città dove ero nato, cresciuto e dove avevo trovato l’amore. Mi abbandonai alla bellissima vista della mia città e mi sedetti sulla comoda poltrona rossa in velluto, dove Celestine si sedeva ogni sera e si metteva a lavorare all’uncinetto, una delle sue più grandi passioni. Ogni cosa che ci fosse in quella casa, ogni cosa che io guardassi o odorassi mi faceva pensare a lei, Celestine.

Il buio e la luce
Non ci potevo credere, non ci volevo credere. Il buio più totale. Era l’unica cosa che riuscivo percepire dopo la notizia. Dall’altra stanza, un quarto d’ora prima, aveva squillato il telefono, svegliandomi dal mio riposino dopo il turno mattutino in ospedale; mi alzai dal divano e risposi: era la polizia statale. Una voce fredda e incolore pronunciò con una cadenza interrogativa:” Edward Wellington?” dopo essersi accertato che fossi io, continuò: “mi dispiace informarla che i suoi genitori: William Wellington e Mary Jackson sono venuti a mancare, a causa di un incidente avvenuto poche ore fa. Condoglianze”. La telefonata si interruppe subito, seguita da un perpetuo bip del telefono. Rimasi immobile per qualche minuto, poi riposi la cornetta al suo posto. Avevo bisogno di appoggiarmi a qualcosa, percepii un mancamento. Era come se la stanza ruotasse tutto intorno a me, iniziai a barcollare fino a cadere sul parquet a spina di pesce. Era passato qualche minuto prima che mi riprendessi, accorgendomi di avere le tempie umide. Incanalai l’aria dalle narici per poi espellerla dalla bocca, feci qualche respiro profondo, proprio come mi aveva consigliato di fare nei momenti di panico mio padre un pomeriggio di tanti anni fa, gran medico quale era. Mi presi qualche minuto per elaborare il trauma: ero pronto a dare la notizia a Elizabeth.
Appena entrato nel luminoso salotto fui immerso in un tripudio di luce, le finestre spalancate permettevano a una lieve brezza di vellicarmi e raffreddarmi il sudore che mi scorreva lungo il viso. Il venticello conferiva a Elizabeth un’atmosfera eterea, quasi poetica. Quell’immagine riuscì a distaccarmi almeno per qualche minuto dal dolore che mi stava divorando. Gli ameni lineamenti del viso erano incorniciati dalle sue mani che le avvolgevano tutta la mascella, fino a sfiorare le orecchie; i gomiti erano appoggiati a un tavolo con la superficie di lastre di marmo. Era la sua tipica posizione mentre studiava, probabilmente i suoi occhi scorrevano velocemente tra le righe del libro sottostante. Due occhi color castagna, li aveva ereditati indubbiamente dalla mamma; i capelli bruni, che splendevano alla luce del sole raccolti in una semplice coda bassa. Il suo viso era incorniciato da una treccia che fungeva da cerchietto; la fronte seminascosta da una ciocca di capelli. Un abitino smanicato candido le copriva solo il busto, l’odore di lavanda giunse fino a me. Il suo modo sempre così semplice, ma fine, faceva di lei una ragazzina fuori dal comune, diversa, almeno per i miei occhi da fratello maggiore. Era lei la vera fonte di luce in quella stanza, l’unica cosa che speravo è che da li a poco non si sarebbe spenta.
Non ci potevo credere, non ci volevo credere. Il buio più totale. Era l’unica cosa che riuscivo percepire dopo la notizia. Dall’altra stanza, un quarto d’ora prima, aveva squillato il telefono, svegliandomi dal mio riposino dopo il turno mattutino in ospedale; mi alzai dal divano e risposi: era la polizia statale. Una voce fredda e incolore pronunciò con una cadenza interrogativa:” Edward Wellington?” dopo essersi accertato che fossi io, continuò: “mi dispiace informarla che i suoi genitori: William Wellington e Mary Jackson sono venuti a mancare, a causa di un incidente avvenuto poche ore fa. Condoglianze”. La telefonata si interruppe subito, seguita da un perpetuo bip del telefono. Rimasi immobile per qualche minuto, poi riposi la cornetta al suo posto. Avevo bisogno di appoggiarmi a qualcosa, percepii un mancamento. Era come se la stanza ruotasse tutto intorno a me, iniziai a barcollare fino a cadere sul parquet a spina di pesce. Era passato qualche minuto prima che mi riprendessi, accorgendomi di avere le tempie umide. Incanalai l’aria dalle narici per poi espellerla dalla bocca, feci qualche respiro profondo, proprio come mi aveva consigliato di fare nei momenti di panico mio padre un pomeriggio di tanti anni fa, gran medico quale era. Mi presi qualche minuto per elaborare il trauma: ero pronto a dare la notizia a Elizabeth.
Appena entrato nel luminoso salotto fui immerso in un tripudio di luce, le finestre spalancate permettevano a una lieve brezza di vellicarmi e raffreddarmi il sudore che mi scorreva lungo il viso. Il venticello conferiva a Elizabeth un’atmosfera eterea, quasi poetica. Quell’immagine riuscì a distaccarmi almeno per qualche minuto dal dolore che mi stava divorando. Gli ameni lineamenti del viso erano incorniciati dalle sue mani che le avvolgevano tutta la mascella, fino a sfiorare le orecchie; i gomiti erano appoggiati a un tavolo con la superficie di lastre di marmo. Era la sua tipica posizione mentre studiava, probabilmente i suoi occhi scorrevano velocemente tra le righe del libro sottostante. Due occhi color castagna, li aveva ereditati indubbiamente dalla mamma; i capelli bruni, che splendevano alla luce del sole raccolti in una semplice coda bassa. Il suo viso era incorniciato da una treccia che fungeva da cerchietto; la fronte seminascosta da una ciocca di capelli. Un abitino smanicato candido le copriva solo il busto, l’odore di lavanda giunse fino a me. Il suo modo sempre così semplice, ma fine, faceva di lei una ragazzina fuori dal comune, diversa, almeno per i miei occhi da fratello maggiore. Era lei la vera fonte di luce in quella stanza, l’unica cosa che speravo è che da li a poco non si sarebbe spenta.

Il futuro giornalista
Avevo perso la cognizione del tempo, il mondo intorno a me era come se fosse fermo, non vedevo nulla, non sentivo nulla, c’era solo davanti a me il foglio. Avevo iniziato a scrivere quando ero arrivato a casa, alle 13:34 di quel giovedì di febbraio del 1920.
Il mio studio era quello di sempre: il tavolo di legno chiaro, perennemente pieno di libri; quelli che non trovavano posto lì venivano messi su un tavolo a parte, accostato al muro, dove mi era impossibile lavorare.
La stanza per il resto era vuota, le mura color pietra erano spoglie; sul tavolo posto vicino al muro di destra l’unico oggetto che spiccava per il suo colore era una piccola ciotola contenente una candela, che però non veniva mai accesa. L’unica fonte di luce della stanza era una lampada ad olio posta davanti al tavolo sul quale lavoravo; emetteva una luce sufficiente per illuminare il piano da lavoro. Lo spazio che si estendeva dietro di me era avvolto nell’ombra. Il resto della casa non era nulla di particolare: era un piccolo appartamento della periferia di Parigi, aveva solo tre stanze e una finestra. Potrà sembrare un ambiente molto triste, ma ormai mi ci ero abituato e, pur abitando da solo, i rumori della città riuscivano a tenermi compagnia.
Il testo, sul quale stavo lavorando da tempo, era talmente importante che non mi tolsi nemmeno il cappotto grigio che indossai per uscire; la cravatta gialla era al suo posto e ben stretta, il colletto della camicia era piegato nella giusta maniera e coperto dalla parte superiore del cappotto; i pantaloni, del medesimo colore del cappotto, non avevano risvolti e arrivavano quasi a toccare il pavimento; indossavo anche i miei mocassini neri, l’uno per terra, l’altro sospeso, poiché tenevo le gambe accavallate.
Presi la penna nera, misi il foglio davanti a me e iniziai a scrivere; la mano scorreva libera, le idee venivano da sé; finii così il primo foglio e lo misi da parte. Continuai a scrivere una parte che necessitava di più informazioni, presi quindi alcuni libri e iniziai a sfogliare le pagine; finalmente trovai le nozioni di cui avevo bisogno, iniziai a riscriverle in una forma diverse e riuscii a finire il secondo foglio.
Passai le successive ore in questo modo, un foglio dopo l’altro: completai ben sette fogli, scritti con una calligrafia ordinata e curata. Misi la data su ogni foglio, in alto a destra, mentre alla fine dell’ultimo foglio misi la mia firma: “Lytton Strachey”.
Non sapevo che ore fossero, non avevo guardato l’orologio per tutto il giorno, distolsi lo sguardo dal foglio esclusivamente per accendere la lampada ad olio; presi il mio orologio da taschino e vidi l’orario: erano le 19:22. Erano passate quasi sei ore da quando ero arrivato a casa; sei ore usate per scrivere l’articolo di giornale per il quotidiano più famoso di Parigi: “Le Figaro”.
La mattina dopo sarei dovuto andare a consegnare l’elaborato alla redazione, se me lo avessero accettato, avrei ottenuto un posto di lavoro nell’ambito del quotidiano parigino.
Passai una notte insonne, continuavo a rileggere il mio testo, desideravo quel lavoro più di qualsiasi altra cosa; dopo tre letture, però, mi addormentai sul mio tavolo, immerso tra fogli e libri.
Il mattino seguente mi svegliai verso le 8, mi vestii in modo adeguato, presi il mio cappotto e mi recai alla sede principale de “Le Figaro”.
Consegnai ad un segretario il mio elaborato, messo accuratamente all’interno di una busta di carta marrone chiaro.
Dopo circa due giorni, mi arrivò a casa una lettera, appena vidi timbrata la scritta “Le Figaro” mi precipitai nel mio studio, aprii la busta e all’interno trovai un breve messaggio, del quale mi saltò immediatamente all’occhio una frase. Ero stato assunto come redattore per il quotidiano parigino; non riuscivo a crederci, ogni mio sforzo era stato ripagato, diversamente da come era successo in passato. Fino ad adesso avevo ricevuto solo risposte negative, stavo quasi per perdere la speranza, ma finalmente ce l’avevo fatta, avevo realizzato il mio sogno.
Avrei iniziato a lavorare dal lunedì della settimana successiva, ancora non ci credevo, ma la più grande ambizione che avevo sin da piccolo si era finalmente realizzata.
Avevo perso la cognizione del tempo, il mondo intorno a me era come se fosse fermo, non vedevo nulla, non sentivo nulla, c’era solo davanti a me il foglio. Avevo iniziato a scrivere quando ero arrivato a casa, alle 13:34 di quel giovedì di febbraio del 1920.
Il mio studio era quello di sempre: il tavolo di legno chiaro, perennemente pieno di libri; quelli che non trovavano posto lì venivano messi su un tavolo a parte, accostato al muro, dove mi era impossibile lavorare.
La stanza per il resto era vuota, le mura color pietra erano spoglie; sul tavolo posto vicino al muro di destra l’unico oggetto che spiccava per il suo colore era una piccola ciotola contenente una candela, che però non veniva mai accesa. L’unica fonte di luce della stanza era una lampada ad olio posta davanti al tavolo sul quale lavoravo; emetteva una luce sufficiente per illuminare il piano da lavoro. Lo spazio che si estendeva dietro di me era avvolto nell’ombra. Il resto della casa non era nulla di particolare: era un piccolo appartamento della periferia di Parigi, aveva solo tre stanze e una finestra. Potrà sembrare un ambiente molto triste, ma ormai mi ci ero abituato e, pur abitando da solo, i rumori della città riuscivano a tenermi compagnia.
Il testo, sul quale stavo lavorando da tempo, era talmente importante che non mi tolsi nemmeno il cappotto grigio che indossai per uscire; la cravatta gialla era al suo posto e ben stretta, il colletto della camicia era piegato nella giusta maniera e coperto dalla parte superiore del cappotto; i pantaloni, del medesimo colore del cappotto, non avevano risvolti e arrivavano quasi a toccare il pavimento; indossavo anche i miei mocassini neri, l’uno per terra, l’altro sospeso, poiché tenevo le gambe accavallate.
Presi la penna nera, misi il foglio davanti a me e iniziai a scrivere; la mano scorreva libera, le idee venivano da sé; finii così il primo foglio e lo misi da parte. Continuai a scrivere una parte che necessitava di più informazioni, presi quindi alcuni libri e iniziai a sfogliare le pagine; finalmente trovai le nozioni di cui avevo bisogno, iniziai a riscriverle in una forma diverse e riuscii a finire il secondo foglio.
Passai le successive ore in questo modo, un foglio dopo l’altro: completai ben sette fogli, scritti con una calligrafia ordinata e curata. Misi la data su ogni foglio, in alto a destra, mentre alla fine dell’ultimo foglio misi la mia firma: “Lytton Strachey”.
Non sapevo che ore fossero, non avevo guardato l’orologio per tutto il giorno, distolsi lo sguardo dal foglio esclusivamente per accendere la lampada ad olio; presi il mio orologio da taschino e vidi l’orario: erano le 19:22. Erano passate quasi sei ore da quando ero arrivato a casa; sei ore usate per scrivere l’articolo di giornale per il quotidiano più famoso di Parigi: “Le Figaro”.
La mattina dopo sarei dovuto andare a consegnare l’elaborato alla redazione, se me lo avessero accettato, avrei ottenuto un posto di lavoro nell’ambito del quotidiano parigino.
Passai una notte insonne, continuavo a rileggere il mio testo, desideravo quel lavoro più di qualsiasi altra cosa; dopo tre letture, però, mi addormentai sul mio tavolo, immerso tra fogli e libri.
Il mattino seguente mi svegliai verso le 8, mi vestii in modo adeguato, presi il mio cappotto e mi recai alla sede principale de “Le Figaro”.
Consegnai ad un segretario il mio elaborato, messo accuratamente all’interno di una busta di carta marrone chiaro.
Dopo circa due giorni, mi arrivò a casa una lettera, appena vidi timbrata la scritta “Le Figaro” mi precipitai nel mio studio, aprii la busta e all’interno trovai un breve messaggio, del quale mi saltò immediatamente all’occhio una frase. Ero stato assunto come redattore per il quotidiano parigino; non riuscivo a crederci, ogni mio sforzo era stato ripagato, diversamente da come era successo in passato. Fino ad adesso avevo ricevuto solo risposte negative, stavo quasi per perdere la speranza, ma finalmente ce l’avevo fatta, avevo realizzato il mio sogno.
Avrei iniziato a lavorare dal lunedì della settimana successiva, ancora non ci credevo, ma la più grande ambizione che avevo sin da piccolo si era finalmente realizzata.

Annette e Alexandre
Era una calda giornata; Annette e Alexandre avevano deciso di andare al Cafè dietro casa per godersi il tepore primaverile. Dopo aver preso del tè e dei biscotti, si accomodarono sulla terrazza del locale. Sedevano sulle sedie di paglia che Annette aveva sempre ritenuto scomode, ma che ora, grazie alla crinolina del vestito, restavano morbide sotto il suo peso. Intorno a loro c’erano centinaia di fiori che coloravano di rosso, giallo, blu e viola l’ambiente circostante; le api, attirate dal loro profumo, ronzavano per il piccolo giardino, mentre l’odore di salsedine e il suono del vicino mare contribuivano a rendere ancora più rilassante quella giornata. Alexandre guardava in lontananza le navi che, emettendo vapori, lasciavano la Francia per dirigersi in Inghilterra. Annette, invece, osservava due giovani che da poco erano entrati nel giardinetto. Con la loro bellezza e freschezza potevano fare a gara coi fiori e nel guardarli Annette pensò a lei e a suo marito che una volta erano stati così belli e un po’ imbarazzati quanto loro.
Era passato molto tempo, ma il ricordo del loro primo incontro era lucido nella testa della donna come se fosse appena successo. Era l’estate del 1845 e Annette era andata a Parigi a trovare sua sorella da poco sposata. In quanto ragazza amava la vita della città: di giorno passeggiava per i giardini mentre di sera partecipava alle sue prime feste e eventi mondani.
Un pomeriggio come altri leggeva in un parco, quando a lei si avvicinò un giovane che, con riverenze quasi impudenti, si presentò come Alexandre. Annette avrebbe voluto rispondergli a tono per la sua sfacciataggine, ma fu rapita dalle sue parole e dai suoi verdi e lucenti occhi che non riusciva a non guardare. Trascorsero insieme il pomeriggio: e Annette si fece trasportare dalle parole del giovane che diventavano sempre più dolci e delicate. Fu difficile salutarlo, ma sentiva che si sarebbero rivisti. E fu così: si videro ogni giorno per tutta l’estate, innamorandosi sempre di più. Quel sogno idilliaco, però, doveva giungere a una fine; ormai l’autunno era arrivato e Annette sarebbe dovuta tornare a casa dai suoi genitori, in un paesino a sud di Parigi. Sapeva che avrebbe abbandonato Alexandre, così andò da lui per un ultimo addio. Il giovane, però, troppo innamorato, non voleva lasciarla andare, allora senza pensarci troppo, ma sicuro di quello che stava facendo, chiese ad Annette di sposarlo. La ragazza fu colta alla sprovvista, ma di getto rispose con un si, colmo di speranze e di amore. Con l’approvazione di entrambe le loro famiglie si sposarono e decisero di trasferirsi in una piccola casa in un paesino della Normandia, vicino al mare e ora seduti come spettatori assistevano alle mosse dei due giovani e al ripetersi di una storia d’amore come la loro.
Era una calda giornata; Annette e Alexandre avevano deciso di andare al Cafè dietro casa per godersi il tepore primaverile. Dopo aver preso del tè e dei biscotti, si accomodarono sulla terrazza del locale. Sedevano sulle sedie di paglia che Annette aveva sempre ritenuto scomode, ma che ora, grazie alla crinolina del vestito, restavano morbide sotto il suo peso. Intorno a loro c’erano centinaia di fiori che coloravano di rosso, giallo, blu e viola l’ambiente circostante; le api, attirate dal loro profumo, ronzavano per il piccolo giardino, mentre l’odore di salsedine e il suono del vicino mare contribuivano a rendere ancora più rilassante quella giornata. Alexandre guardava in lontananza le navi che, emettendo vapori, lasciavano la Francia per dirigersi in Inghilterra. Annette, invece, osservava due giovani che da poco erano entrati nel giardinetto. Con la loro bellezza e freschezza potevano fare a gara coi fiori e nel guardarli Annette pensò a lei e a suo marito che una volta erano stati così belli e un po’ imbarazzati quanto loro.
Era passato molto tempo, ma il ricordo del loro primo incontro era lucido nella testa della donna come se fosse appena successo. Era l’estate del 1845 e Annette era andata a Parigi a trovare sua sorella da poco sposata. In quanto ragazza amava la vita della città: di giorno passeggiava per i giardini mentre di sera partecipava alle sue prime feste e eventi mondani.
Un pomeriggio come altri leggeva in un parco, quando a lei si avvicinò un giovane che, con riverenze quasi impudenti, si presentò come Alexandre. Annette avrebbe voluto rispondergli a tono per la sua sfacciataggine, ma fu rapita dalle sue parole e dai suoi verdi e lucenti occhi che non riusciva a non guardare. Trascorsero insieme il pomeriggio: e Annette si fece trasportare dalle parole del giovane che diventavano sempre più dolci e delicate. Fu difficile salutarlo, ma sentiva che si sarebbero rivisti. E fu così: si videro ogni giorno per tutta l’estate, innamorandosi sempre di più. Quel sogno idilliaco, però, doveva giungere a una fine; ormai l’autunno era arrivato e Annette sarebbe dovuta tornare a casa dai suoi genitori, in un paesino a sud di Parigi. Sapeva che avrebbe abbandonato Alexandre, così andò da lui per un ultimo addio. Il giovane, però, troppo innamorato, non voleva lasciarla andare, allora senza pensarci troppo, ma sicuro di quello che stava facendo, chiese ad Annette di sposarlo. La ragazza fu colta alla sprovvista, ma di getto rispose con un si, colmo di speranze e di amore. Con l’approvazione di entrambe le loro famiglie si sposarono e decisero di trasferirsi in una piccola casa in un paesino della Normandia, vicino al mare e ora seduti come spettatori assistevano alle mosse dei due giovani e al ripetersi di una storia d’amore come la loro.

La maitre
La sala oggi era vuota
Mi stavo portando avanti con la contabilità, mentre Darlene si occupava dei clienti.
Tutte le luci erano accese a causa dell’uggiosa e fredda giornata invernale.
Spostando i ruvidi fogli che stavo riempiendo, con la mia stretta calligrafia, dei numeri degli incassi della sera precedente, mi cadde l’occhio sulla piccola fotografia incorniciata, posta accanto alla cassa, che ritraeva una me neonata tra le braccia dei miei genitori: era l’unica foto che avevamo, vista la loro prematura scomparsa.
Non li ricordavo neanche, tutto quello che avevo di loro erano le storie raccontate dai miei amati nonni che mi avevano allevato tra le mura di questa piccola locanda.
La vecchiaia e la malattia, che ormai aveva colpito i nonni, era l’unico motivo per cui non ero ancora scappata da questa sperduta cittadina situata nel cuore degli Stati Uniti.
Per un breve periodo avevo viaggiato cercando di coronare il mio sogno di diventare una fotografa, ma era basta una chiamata perché il mio mondo cadesse a pezzi.
Il dottore, mi disse, che ormai i nonni erano troppo anziani per continuare a portare avanti la locanda, quindi tornai e inizia a praticare quel lavoro che tanto odiavo.
L’unica ragione per cui lo feci era per il rispetto di tutti i sacrifici fatti per me nel corso degli anni; non potevo abbandonare chi mi amava solo per raggiungere i miei obbiettivi.
Il problema più grande che mi dava quel lavoro, era il contatto con la gente.
La timidezza che mi aveva accompagnato nel corso degli anni, non accennava a sparire, per questo adoravo la fotografia, perché mi permetteva di immortalare il mondo esterno senza farne veramente parte.
Ormai da un anno mi limitavo, giorno dopo giorno, ad osservare con occhi vacui i clienti, immaginando la loro vita e sognando fosse la mia.
Li guardavo chiacchierare nell’ampia sala da pranzo, che conservava l’odore di pulito unito a quello delle pietanze preparate; li osservavo ridere e vedevo famiglie felici.
Il mio momento preferito era la cena, perché tutti, sfoggiando i loro indumenti migliori, agganciavano le pellicce e i cappelli agli attaccapanni inchiodati sui cornicioni di legno scuro, che attraversavano tutta la stanza.
Il pavimento marmoreo a scacchi bianchi e neri rifletteva la luce data dai grandi lampadari.
I piccoli tavoli, privi di centro tavola, erano collocati vicino al muro ricoperti dalle lunghe tovaglie bianche, senza stile, accompagnati dalle sedie di legno con gli schienali lavorati da ricchi intrecci.
Il grande orologio ticchettava sopra il bancone in legno scuro, dell’accoglienza, accostato alla piccola vetrinetta da esposizione, che conteneva tutti i prodotti tipici del locale.
Stesso compito spettava al lungo e lucido bancone nero, sempre ricoperto da frutti di stagione e piante da esposizione. Questo, stava appoggiato al muro che nascondeva, in parte, il buio e inquietante vano delle scale, in cui da bambina mi nascondevo sempre per scattare, di nascosto, foto ai clienti.
A guardarmi bene in questo momento sarei riuscita a mimetizzarmi al suo interno senza problemi.
Mi rendevo conto che l’abito a mezze maniche nero che stavo indossando non esaltasse le mie forme; indubbiamente non aiutava il mio incarnato olivastro a non assumere un colorito poco sano. Neanche il mio caschetto nero liscio esaltava il mio viso rotondo, dalle strette labbra e dal naso schiacciato.
Di sicuro sfiguravo ancora di più comparata con Darlene che stava porgendo, elegantemente e con un sorriso radioso, il piatto fumante ai clienti.
Era stata la mia unica salvezza. Questa ragazza proveniva da una famiglia benestante che l’aveva ripudiata, dopo aver scoperto il suo voler sposare il giardiniere di famiglia; questo non la aveva fermata, visto che subito si era cercata un lavoro per poter aiutare il marito a mantenere la famiglia che si stavano costruendo.
Con i suoi bei capelli biondi e il sorriso contagioso Darlene mi aveva subito convinta ad assumerla.
Sentendo la porta cigolare tornai a concentrarmi pienamente sul presente per poter accogliere una coppia appena entrata nel locale.
Era ora di riprendere a pieno il mio lavoro anche sentendone l’amaro in bocca.
La sala oggi era vuota
Mi stavo portando avanti con la contabilità, mentre Darlene si occupava dei clienti.
Tutte le luci erano accese a causa dell’uggiosa e fredda giornata invernale.
Spostando i ruvidi fogli che stavo riempiendo, con la mia stretta calligrafia, dei numeri degli incassi della sera precedente, mi cadde l’occhio sulla piccola fotografia incorniciata, posta accanto alla cassa, che ritraeva una me neonata tra le braccia dei miei genitori: era l’unica foto che avevamo, vista la loro prematura scomparsa.
Non li ricordavo neanche, tutto quello che avevo di loro erano le storie raccontate dai miei amati nonni che mi avevano allevato tra le mura di questa piccola locanda.
La vecchiaia e la malattia, che ormai aveva colpito i nonni, era l’unico motivo per cui non ero ancora scappata da questa sperduta cittadina situata nel cuore degli Stati Uniti.
Per un breve periodo avevo viaggiato cercando di coronare il mio sogno di diventare una fotografa, ma era basta una chiamata perché il mio mondo cadesse a pezzi.
Il dottore, mi disse, che ormai i nonni erano troppo anziani per continuare a portare avanti la locanda, quindi tornai e inizia a praticare quel lavoro che tanto odiavo.
L’unica ragione per cui lo feci era per il rispetto di tutti i sacrifici fatti per me nel corso degli anni; non potevo abbandonare chi mi amava solo per raggiungere i miei obbiettivi.
Il problema più grande che mi dava quel lavoro, era il contatto con la gente.
La timidezza che mi aveva accompagnato nel corso degli anni, non accennava a sparire, per questo adoravo la fotografia, perché mi permetteva di immortalare il mondo esterno senza farne veramente parte.
Ormai da un anno mi limitavo, giorno dopo giorno, ad osservare con occhi vacui i clienti, immaginando la loro vita e sognando fosse la mia.
Li guardavo chiacchierare nell’ampia sala da pranzo, che conservava l’odore di pulito unito a quello delle pietanze preparate; li osservavo ridere e vedevo famiglie felici.
Il mio momento preferito era la cena, perché tutti, sfoggiando i loro indumenti migliori, agganciavano le pellicce e i cappelli agli attaccapanni inchiodati sui cornicioni di legno scuro, che attraversavano tutta la stanza.
Il pavimento marmoreo a scacchi bianchi e neri rifletteva la luce data dai grandi lampadari.
I piccoli tavoli, privi di centro tavola, erano collocati vicino al muro ricoperti dalle lunghe tovaglie bianche, senza stile, accompagnati dalle sedie di legno con gli schienali lavorati da ricchi intrecci.
Il grande orologio ticchettava sopra il bancone in legno scuro, dell’accoglienza, accostato alla piccola vetrinetta da esposizione, che conteneva tutti i prodotti tipici del locale.
Stesso compito spettava al lungo e lucido bancone nero, sempre ricoperto da frutti di stagione e piante da esposizione. Questo, stava appoggiato al muro che nascondeva, in parte, il buio e inquietante vano delle scale, in cui da bambina mi nascondevo sempre per scattare, di nascosto, foto ai clienti.
A guardarmi bene in questo momento sarei riuscita a mimetizzarmi al suo interno senza problemi.
Mi rendevo conto che l’abito a mezze maniche nero che stavo indossando non esaltasse le mie forme; indubbiamente non aiutava il mio incarnato olivastro a non assumere un colorito poco sano. Neanche il mio caschetto nero liscio esaltava il mio viso rotondo, dalle strette labbra e dal naso schiacciato.
Di sicuro sfiguravo ancora di più comparata con Darlene che stava porgendo, elegantemente e con un sorriso radioso, il piatto fumante ai clienti.
Era stata la mia unica salvezza. Questa ragazza proveniva da una famiglia benestante che l’aveva ripudiata, dopo aver scoperto il suo voler sposare il giardiniere di famiglia; questo non la aveva fermata, visto che subito si era cercata un lavoro per poter aiutare il marito a mantenere la famiglia che si stavano costruendo.
Con i suoi bei capelli biondi e il sorriso contagioso Darlene mi aveva subito convinta ad assumerla.
Sentendo la porta cigolare tornai a concentrarmi pienamente sul presente per poter accogliere una coppia appena entrata nel locale.
Era ora di riprendere a pieno il mio lavoro anche sentendone l’amaro in bocca.

Le bagnanti
Quella era una mattinata tranquilla: l’aria era fresca, una leggera brezza accarezzava il corpo e sollevava le vesti, il mare era più blu che mai. Molte donne erano in spiaggia, serene, a godersi il piacevole momento. Non c’erano rumori fastidiosi, si poteva udire soltanto il tranquillo sciabordio delle onde e il sibilo del vento.
Il tempo a Southampton sembrava quasi essersi fermato, in quella pacifica mattinata di fine maggio. Tutto era calmo, tutto tranne i pensieri di Madeline. La sua testa viaggiava troppo velocemente e la donna ormai non riusciva a seguirla; brutti pensieri di un misero futuro l’avevano ossessionata nelle ultime settimane. Lei e la piccola Abigail correvano rapidamente sulla sabbia umida, ancora fredda dalla notte. Intorno a loro le persone in quel momento vivevano la loro vita: mamme, bambini, governanti. Serene, come se nulla potesse turbare la loro esistenza; ma Madeline sapeva che non era così e che le sventure sono sempre dietro l’angolo: pronte a sconvolgere da un momento all’altro. Forse non era l’unica a cui la vita aveva riservato una brutta sorpresa; anche lì su quella spiaggia probabilmente c’era chi, come ella, aveva dovuto versare lacrime. Ma quello era il giorno in cui tutto era destinato a sistemarsi. Ogni cosa sarebbe tornata a posto.
Ricordava ancora troppo bene i pensieri che avevano attraversato la sua mente quel 10 aprile, più di un mese prima, quando lei, Abigail e Nathan percorrevano questo stesso cammino, per arrivare al porto di Southampton, città dove abitavano, nel sud dell’Inghilterra. Quel giorno, che sembrava distante anni luce, c’era grande eccitazione nell’aria. La loro famiglia si apprestava a gettare le basi per un trasferimento negli Stati uniti, e, come suo marito, molti erano lì diretti per imbarcarsi sulla più maestosa nave mai costruita fino ad allora: il transatlantico britannico “RMS Titanic”. I posti a bordo erano limitati e Nathan era riuscito ad averne il biglietto in quanto prestigioso amministratore delegato di una grande società. A New York lo aspettavano i possibili investitori con cui sperava di concludere un affare importante. Da mesi non si faceva che parlare di questi eventi: il radioso futuro della loro famiglia e un viaggio straordinario a bordo di un tale gioiello di nave. Madeline aveva impresso nella testa il sorriso del marito al momento dell’imbarco.
Quel sorriso, che la fece piangere così tanto il giorno in cui un laconico telegramma le comunicò il naufragio del Titanic. Eppure pensava di avere già versate tutte le sue lacrime la mattina del 12, quando Chloe, la cameriera, le consegnò il giornale su cui i titoli in prima pagina non lasciavano dubbi sull’enormità della tragedia. Madeline si sentì male ed ebbe uno svenimento. La comunicazione parlava di una collisione con un iceberg e diceva che molti passeggeri avevano perso la vita. Non si avevano numeri certi e il corpo di suo marito non era ancora stato ritrovato. A questo punto erano due le possibilità: o si era salvato ed era di ritorno sulla nave dei sopravvissuti o il suo cadavere era disperso nelle acque dell’oceano Atlantico settentrionale, ma a questa ipotesi Madeline non voleva proprio pensare: suo marito era vivo, si era salvato, era fra i sopravvissuti, non c’era dubbio. Questa era l’unica via possibile.
Quella mattina, quindi, lei ed Abigail si trovavano sulle spiagge di Southampton proprio per accogliere la nave su cui, dicevano, viaggiavano alcuni dei pochi superstiti. Aveva scelto di passare dalla spiaggia, perché il rumore del mare aveva su di lei un effetto calmante ed Abigail, intenta a sgambettare nella sabbia, non l’avrebbe tormentata con tutti i suoi “Quando arriviamo, mammina?”.
Arrivarono al porto e subito Madeline vide che c’erano molte donne, in lacrime, ad aspettare figli e mariti, con la speranza di vederli. Avvistarono in lontananza la nave, che si avvicinava lentamente. Quegli istanti parvero un’eternità, per Madeline, il cui cuore batteva forte, e anche per Abigail, che pur non capendo troppo sapeva che le mancava suo padre.
Il transatlantico attraccò; gli addetti calarono la scala e con essa il ponticello. In quel momento il sole si alzò e colpì il volto di Madeline, accecandola per un attimo. La donna capì. La nave era arrivata, il sole splendeva. Il marito era salvo.
Le bagnanti
Chiusi il parasole bianco che avevo con me e mi sedetti.
Rimasi ad osservare per un po’ il paesaggio attorno a me: il mare era particolarmente calmo quel giorno, limpido e pulito; c’era persino qualche marinaio intraprendente che era andato a largo, probabilmente a pescare; la sabbia era calda, ma non abbastanza da risultare insopportabile; ne presi un mucchietto con la mano e la osservai cadere, bianca, lucente, libera.
Sentivo le risate dei bimbi e stralci di conversazioni di altre persone.
Per essere un sabato mattina, non c’era molta gente sulla spiaggia. Qualche mamma con i propri figli, e qualche ragazzo della mia età.
Era una tranquilla mattina di maggio del 1870 un giorno giusto per rilassarmi.
Sentii chiamare il mio nome; mi girai e vidi la bella Bessie venirmi incontro; la salutai in modo educato e lei mi rivolse un sorriso gentile.
Passammo un’oretta o due a parlare del più e del meno, ma la vedevo distante, le chiesi cosa fosse a farla preoccupare tanto.
Mi confidò che suo fratello sarebbe partito da lì a poco per andare a prestare servizio militare al fronte: lei era molto preoccupata.
La guardai in silenzio per un po’, comprendevo la sua preoccupazione, ne ero piena anche io.
La abbracciai per qualche minuto, tentai di rassicurarla, ma sapevo che c’era poco da fare.
Mi chiese se anche Louis sarebbe partito; non risposi e immaginai che dal mio silenzio capì tutto, perché anche lei mi diede un abbraccio.
Rimanemmo lì finché non scese la sera.
Passarono i mesi.
Louis aveva promesso di sposarmi, una volta tornato.
Continuavo a ricevere sue lettere, la cosa mi calmava, mi ripetevo che stava bene e che sarebbe tornato.
Poi le lettere smisero di arrivare.
Era passato un anno ormai.
Era di nuovo maggio ed ero ancora alla spiaggia aspettando Bessie: suo fratello era tornato a casa, con qualche cicatrice, ma sopravvissuto.
Il mare era calmo, sembrava si stesse burlando delle mie preoccupazioni; la bianca sabbia era inspiegabilmente fredda. La leggera brezza di quel giorno continuava a spostarmi il cappellino. Avevo il sapore della salsedine in bocca, anche se non mi ero avvicinata all’acqua.
Bessie e suo fratello continuavano a ridere e scherzare: sapevo che non lo facevano per darmi fastidio, ma era insopportabile.
Mentre stavo per andarmene venni fermata da un simpatico ometto basso, vestito molto elegante, che sembrava avere una piccola passione per la buona cucina.
Mi porse un baule, come lo avesse portato fino lì rimane ancora oggi un mistero, disse che mi era stato inviato da un mittente sconosciuto.
Gli chiesi come facesse a conoscermi ma non ebbi risposta.
Il baule era particolarmente elegante, ornato da un nastro bianco: quello che sembrava legno era ricoperto con del velluto rosa pesca, che sembrava essere di alta qualità.
Sciolsi il fiocco e aprii il baule.
Con le mani tremanti estrassi delicatamente quello che era un vestito bianco fatto di tulle. Era il vestito da sposa più bello che avessi mai visto.
Sorrisi, e capii chi mi aveva mandato quel regalo.
Louis era a casa.
Quella era una mattinata tranquilla: l’aria era fresca, una leggera brezza accarezzava il corpo e sollevava le vesti, il mare era più blu che mai. Molte donne erano in spiaggia, serene, a godersi il piacevole momento. Non c’erano rumori fastidiosi, si poteva udire soltanto il tranquillo sciabordio delle onde e il sibilo del vento.
Il tempo a Southampton sembrava quasi essersi fermato, in quella pacifica mattinata di fine maggio. Tutto era calmo, tutto tranne i pensieri di Madeline. La sua testa viaggiava troppo velocemente e la donna ormai non riusciva a seguirla; brutti pensieri di un misero futuro l’avevano ossessionata nelle ultime settimane. Lei e la piccola Abigail correvano rapidamente sulla sabbia umida, ancora fredda dalla notte. Intorno a loro le persone in quel momento vivevano la loro vita: mamme, bambini, governanti. Serene, come se nulla potesse turbare la loro esistenza; ma Madeline sapeva che non era così e che le sventure sono sempre dietro l’angolo: pronte a sconvolgere da un momento all’altro. Forse non era l’unica a cui la vita aveva riservato una brutta sorpresa; anche lì su quella spiaggia probabilmente c’era chi, come ella, aveva dovuto versare lacrime. Ma quello era il giorno in cui tutto era destinato a sistemarsi. Ogni cosa sarebbe tornata a posto.
Ricordava ancora troppo bene i pensieri che avevano attraversato la sua mente quel 10 aprile, più di un mese prima, quando lei, Abigail e Nathan percorrevano questo stesso cammino, per arrivare al porto di Southampton, città dove abitavano, nel sud dell’Inghilterra. Quel giorno, che sembrava distante anni luce, c’era grande eccitazione nell’aria. La loro famiglia si apprestava a gettare le basi per un trasferimento negli Stati uniti, e, come suo marito, molti erano lì diretti per imbarcarsi sulla più maestosa nave mai costruita fino ad allora: il transatlantico britannico “RMS Titanic”. I posti a bordo erano limitati e Nathan era riuscito ad averne il biglietto in quanto prestigioso amministratore delegato di una grande società. A New York lo aspettavano i possibili investitori con cui sperava di concludere un affare importante. Da mesi non si faceva che parlare di questi eventi: il radioso futuro della loro famiglia e un viaggio straordinario a bordo di un tale gioiello di nave. Madeline aveva impresso nella testa il sorriso del marito al momento dell’imbarco.
Quel sorriso, che la fece piangere così tanto il giorno in cui un laconico telegramma le comunicò il naufragio del Titanic. Eppure pensava di avere già versate tutte le sue lacrime la mattina del 12, quando Chloe, la cameriera, le consegnò il giornale su cui i titoli in prima pagina non lasciavano dubbi sull’enormità della tragedia. Madeline si sentì male ed ebbe uno svenimento. La comunicazione parlava di una collisione con un iceberg e diceva che molti passeggeri avevano perso la vita. Non si avevano numeri certi e il corpo di suo marito non era ancora stato ritrovato. A questo punto erano due le possibilità: o si era salvato ed era di ritorno sulla nave dei sopravvissuti o il suo cadavere era disperso nelle acque dell’oceano Atlantico settentrionale, ma a questa ipotesi Madeline non voleva proprio pensare: suo marito era vivo, si era salvato, era fra i sopravvissuti, non c’era dubbio. Questa era l’unica via possibile.
Quella mattina, quindi, lei ed Abigail si trovavano sulle spiagge di Southampton proprio per accogliere la nave su cui, dicevano, viaggiavano alcuni dei pochi superstiti. Aveva scelto di passare dalla spiaggia, perché il rumore del mare aveva su di lei un effetto calmante ed Abigail, intenta a sgambettare nella sabbia, non l’avrebbe tormentata con tutti i suoi “Quando arriviamo, mammina?”.
Arrivarono al porto e subito Madeline vide che c’erano molte donne, in lacrime, ad aspettare figli e mariti, con la speranza di vederli. Avvistarono in lontananza la nave, che si avvicinava lentamente. Quegli istanti parvero un’eternità, per Madeline, il cui cuore batteva forte, e anche per Abigail, che pur non capendo troppo sapeva che le mancava suo padre.
Il transatlantico attraccò; gli addetti calarono la scala e con essa il ponticello. In quel momento il sole si alzò e colpì il volto di Madeline, accecandola per un attimo. La donna capì. La nave era arrivata, il sole splendeva. Il marito era salvo.
Le bagnanti
Chiusi il parasole bianco che avevo con me e mi sedetti.
Rimasi ad osservare per un po’ il paesaggio attorno a me: il mare era particolarmente calmo quel giorno, limpido e pulito; c’era persino qualche marinaio intraprendente che era andato a largo, probabilmente a pescare; la sabbia era calda, ma non abbastanza da risultare insopportabile; ne presi un mucchietto con la mano e la osservai cadere, bianca, lucente, libera.
Sentivo le risate dei bimbi e stralci di conversazioni di altre persone.
Per essere un sabato mattina, non c’era molta gente sulla spiaggia. Qualche mamma con i propri figli, e qualche ragazzo della mia età.
Era una tranquilla mattina di maggio del 1870 un giorno giusto per rilassarmi.
Sentii chiamare il mio nome; mi girai e vidi la bella Bessie venirmi incontro; la salutai in modo educato e lei mi rivolse un sorriso gentile.
Passammo un’oretta o due a parlare del più e del meno, ma la vedevo distante, le chiesi cosa fosse a farla preoccupare tanto.
Mi confidò che suo fratello sarebbe partito da lì a poco per andare a prestare servizio militare al fronte: lei era molto preoccupata.
La guardai in silenzio per un po’, comprendevo la sua preoccupazione, ne ero piena anche io.
La abbracciai per qualche minuto, tentai di rassicurarla, ma sapevo che c’era poco da fare.
Mi chiese se anche Louis sarebbe partito; non risposi e immaginai che dal mio silenzio capì tutto, perché anche lei mi diede un abbraccio.
Rimanemmo lì finché non scese la sera.
Passarono i mesi.
Louis aveva promesso di sposarmi, una volta tornato.
Continuavo a ricevere sue lettere, la cosa mi calmava, mi ripetevo che stava bene e che sarebbe tornato.
Poi le lettere smisero di arrivare.
Era passato un anno ormai.
Era di nuovo maggio ed ero ancora alla spiaggia aspettando Bessie: suo fratello era tornato a casa, con qualche cicatrice, ma sopravvissuto.
Il mare era calmo, sembrava si stesse burlando delle mie preoccupazioni; la bianca sabbia era inspiegabilmente fredda. La leggera brezza di quel giorno continuava a spostarmi il cappellino. Avevo il sapore della salsedine in bocca, anche se non mi ero avvicinata all’acqua.
Bessie e suo fratello continuavano a ridere e scherzare: sapevo che non lo facevano per darmi fastidio, ma era insopportabile.
Mentre stavo per andarmene venni fermata da un simpatico ometto basso, vestito molto elegante, che sembrava avere una piccola passione per la buona cucina.
Mi porse un baule, come lo avesse portato fino lì rimane ancora oggi un mistero, disse che mi era stato inviato da un mittente sconosciuto.
Gli chiesi come facesse a conoscermi ma non ebbi risposta.
Il baule era particolarmente elegante, ornato da un nastro bianco: quello che sembrava legno era ricoperto con del velluto rosa pesca, che sembrava essere di alta qualità.
Sciolsi il fiocco e aprii il baule.
Con le mani tremanti estrassi delicatamente quello che era un vestito bianco fatto di tulle. Era il vestito da sposa più bello che avessi mai visto.
Sorrisi, e capii chi mi aveva mandato quel regalo.
Louis era a casa.

La casetta blu
Sono sempre stata abituata a vivere nella pace e nella tranquillità della campagna. Qualche volta mi sentivo molto sola, ma quando qualcuno passava dalle mie parti, essendo una casetta blu, mi si notava immediatamente. Dal punto in cui stavo potevo vedere tutta la città e le sue moderne strutture in cemento del ventesimo secolo; a differenza loro, però, io, ero fatta di legno. Da lassù potevo sentire l’odore del pane appena sfornato, così intenso che riusciva a raggiungermi a molti chilometri di distanza; invece, durante il giorno, sentivo a malapena il brusio della gente che parlava nelle vie del paese. Ogni sera ammiravo il sole aranciato tramontare sulle case della città che rendeva l’atmosfera magica.
Fui costruita molti anni fa da una famigliola che aveva un bambino molto vivace con i capelli rossi. Dopo poco tempo, però, se ne andarono e io diventai, più che un luogo accogliente, un luogo di transito. Ho visto moltissime giovani coppiette innamorate e assistito a incontri loschi tra briganti.
Un giorno arrivarono tre persone strane, vestite bene e molto serie. Cominciarono a confabulare qualcosa e io sentii che uno dei tre, quello dallo sguardo affaticato e dagli occhi stanchi, diceva che non aveva più bisogno di me e che avrebbe venduto volentieri la mia legna. All’improvviso lo riconobbi: era il tanto amabile bambino dai capelli rossi che per poco tempo avevo ospitato tra le mie mura. Era cresciuto, non aveva più gli sgargianti capelli color rame ma, al loro posto, c’erano corti capelli bianchi a spazzola. La sua voce era roca e, dal suo viso, si intravedevano segni di stanchezza.
Quella sera, l’atmosfera era diversa, non mi sentivo più sicura in quel luogo così isolato e avrei dato qualunque cosa pur di essere in città. Il sole non era tramontato elegantemente, ma era stato coperto da grandi nuvole nere, persino il bosco dietro di me mi metteva una certa ansia.
Il giorno dopo, al mattino presto, arrivò una squadra di uomini muniti di asce che erano pronti a farmi a pezzi. Iniziarono così ad abbattere ogni centimetro delle mie forti mura, ed ad ogni colpo, soffrivo sempre di più.
Dopo non so quanto tempo, mi ritrovai in una cameretta bianca ed ero diventata una piccola culla di legno.
Oggi mi trovo ancora nella stessa stanzina e sono pronta a cullare per bene tutti i bambini che passeranno per quest’ospedale. La vita che faccio è molto meglio di quella di prima: ho un obiettivo, far sentire a casa i bambini malati.
Sono sempre stata abituata a vivere nella pace e nella tranquillità della campagna. Qualche volta mi sentivo molto sola, ma quando qualcuno passava dalle mie parti, essendo una casetta blu, mi si notava immediatamente. Dal punto in cui stavo potevo vedere tutta la città e le sue moderne strutture in cemento del ventesimo secolo; a differenza loro, però, io, ero fatta di legno. Da lassù potevo sentire l’odore del pane appena sfornato, così intenso che riusciva a raggiungermi a molti chilometri di distanza; invece, durante il giorno, sentivo a malapena il brusio della gente che parlava nelle vie del paese. Ogni sera ammiravo il sole aranciato tramontare sulle case della città che rendeva l’atmosfera magica.
Fui costruita molti anni fa da una famigliola che aveva un bambino molto vivace con i capelli rossi. Dopo poco tempo, però, se ne andarono e io diventai, più che un luogo accogliente, un luogo di transito. Ho visto moltissime giovani coppiette innamorate e assistito a incontri loschi tra briganti.
Un giorno arrivarono tre persone strane, vestite bene e molto serie. Cominciarono a confabulare qualcosa e io sentii che uno dei tre, quello dallo sguardo affaticato e dagli occhi stanchi, diceva che non aveva più bisogno di me e che avrebbe venduto volentieri la mia legna. All’improvviso lo riconobbi: era il tanto amabile bambino dai capelli rossi che per poco tempo avevo ospitato tra le mie mura. Era cresciuto, non aveva più gli sgargianti capelli color rame ma, al loro posto, c’erano corti capelli bianchi a spazzola. La sua voce era roca e, dal suo viso, si intravedevano segni di stanchezza.
Quella sera, l’atmosfera era diversa, non mi sentivo più sicura in quel luogo così isolato e avrei dato qualunque cosa pur di essere in città. Il sole non era tramontato elegantemente, ma era stato coperto da grandi nuvole nere, persino il bosco dietro di me mi metteva una certa ansia.
Il giorno dopo, al mattino presto, arrivò una squadra di uomini muniti di asce che erano pronti a farmi a pezzi. Iniziarono così ad abbattere ogni centimetro delle mie forti mura, ed ad ogni colpo, soffrivo sempre di più.
Dopo non so quanto tempo, mi ritrovai in una cameretta bianca ed ero diventata una piccola culla di legno.
Oggi mi trovo ancora nella stessa stanzina e sono pronta a cullare per bene tutti i bambini che passeranno per quest’ospedale. La vita che faccio è molto meglio di quella di prima: ho un obiettivo, far sentire a casa i bambini malati.
La lavatrice stellare.
Partendo dall'inizio di un testo di Brown abbiamo inventato dei racconti di fantascienza.
La lavatrice stellare.
Il segreto è tutto nella dattina. Sulle prime la chiamarono adattina, ma ben presto lo abbreviarono in dattina. E’ quello che permette di adattarci. E così ho dovuto fare anche io quando sono scesa sulla terra.
In un tempo lontano,, sono venuta sulla terra, cosa proibita sul mio pianeta. Esso si trova sperduto nell’universo e sempre nascosto dietro la luna. E’ un pianeta piccolo. Le sue leggi sono dure e punitive se infrante, cosa che io ho fatto. Sono stata spinta a farlo, mossa dalla mia incontrollabile curiosità. Ho sempre amato le storie riguardanti la terra che gli anziani del mio popolo raccontavano. Così infatti decisi di andare e di scoprire tutto ciò che si celava in essa. Ma per farlo mi sono servita di una pillola, che permetteva di cammuffarsi in un tipico oggetto del pianeta in cui si desiderava andare. Infatti anche se sono una creatura spaziale non posso attraversare l’atmosfera della terra.
Rubai la pillola con facilità perché il guardiano che sorvegliava il luogo dove erano nascoste stava dormendo e gli allarmi erano disattivati per un breve lasso di tempo. La presi e viaggiai fino a che non mi trovai poco distante dalla terra; allora ingoiai la pastiglia: la mia aura viola sulle braccia cominciò a spegnersi . Chiusi gli occhi e mi sentii trasportare da una forza incontrollabile. Appena riaprii gli occhi mi ritrovai in un posto mai visto. C’erano tanti cesti e la stanza era alquanto piccola. Mi sentivo diversa, non sentivo gli arti e vedevo in modo strano. In un angolo notai uno specchio nel quale si vedeva un quadrato con una finestrella al centro: e ero io. Questo era l’oggetto comune della terra, una cosa bizzarra. Sentii dei passi: entrò una creatura umana. Provai un’immensa emozione. Si diresse verso di me, spostò il mio “occhio” e la mia prospettiva cambiò. Quando tornò normale poco dopo la mia vista si appannò: era una strana sostanza schiumosa. Sentivo delle grida e dei pianti dal piano di sotto probabilmente altre creature umane, ma non ci badai molto; ero così felice d essere riuscita nella mia impresa. L’effetto della pillola non si sapeva con certezza quanto durasse, ma di sicuro un lungo tempo. Avrei dovuto abituarmi a tutto questo e ne ero felice.
La lavatrice stellare.
Il segreto è tutto nella dattina. Sulle prime la chiamarono adattina, ma ben presto la abbreviarono in dattina. È quello che ci permette di adattarci.
Sono una lavatrice. Mi correggo; tutti mi considerano una lavatrice, ma c'è molto di più. Nascondo un segreto che non posso rivelare a nessuno.
Era il lontano 2003. Esattamente trentaquattro anni fa, l'uomo aveva messo piede sul nostro territorio. Con quello strano aggeggio, chiamato in termini terrestri “Apollo 11”, erano state distrutte migliaia di abitazioni. L'atterraggio lunare aveva causato la morte di molte vittime, tra le quali mia sorella. Mi ricordo ancora il mio radar che me lo aveva annunciato. Non vi perdonerò mai per quello che avete fatto. In quei trentaquattro anni avevo pensato ad un modo per vendicarmi e per evitare che potesse succedere un'altra volta una tragedia simile. È successa. Dicembre 1972: altre vittime e distruzioni. Dovevo fare qualcosa. Elaborai sempre di più l'idea di infiltrarmi come spia nel misterioso pianeta terra.
Primo gennaio 2003: i robot più esperti mi modificarono. Mi crearono più bassa e tozza; assunsi una forma quadrata. Mi inserirono delle tubature all'interno. Il mio ombelico esplose; diventò un cerchio perfetto che si poteva aprire e chiudere.
Giugno 2003 mi spediscono sulla Terra, in un negozio con oggetti simili a me. Altri invece, più alti e magri, erano chiamati aspirapolveri. A me diedero il nome di lavatrice. Fui acquistata da una coppia di sposi nell'agosto del 2003. Passati alcuni anni, la famiglia raddoppiò.
Con il tempo mi sono adattata alle loro abitudini: devo mettermi in funzione nel weekend. Una lavata di bianco, una di nero ed una sul rosso. Un giorno il bambino arrivato per secondo mi attaccò un adesivo rosso e bianco a forma di palla da calcio. Questo simbolo mi ha reso parte della famiglia.
La lavatrice stellare.
Il segreto è tutto nella dattina. Sulle prime la chiamarono adattina, ma ben presto lo adattarono in dattina. E’ quello che ci permette di adattarci.
Iniziò tutto 4 anni fa, quando a me e ai miei genitori venne detto che io sarei dovuta andare in un pianeta dove avevano trovato degli esseri viventi adatti ad un esperimento.
Partii un anno dopo circa, un anno ricco di test e prove, di esami e di regole, ma finalmente ero pronta.
Mi avevano detto che, per non farmi scoprire, sarei dovuta sembrare un oggetto che questi strani bipedi usano per lavare le tovaglie che si mettono addosso.
Avevamo già previsto tutto: avrei bevuto l’acqua che mi veniva immessa e avrei mangiato ogni tanto qualche calzino. Potevo sopravvivere.
Sono ormai passati tre anni da quando sono arrivata, e questo esperimento si sta per concludere.
Ammetto che un po’ mi mancherà la Terra, così si chiama questo pianeta, però sono felice di poter tornare a casa, chissà quante cose saranno cambiate!
Esattamente tra una settimana mi verranno a prendere, e dovrò portare con me la bambina della famiglia nella cui casa ho vissuto in questo periodo.
Rilasciavo nei suoi vestiti un po’ di dattina ogni volta, spero che non muoia e che sia pronta per l’esperimento, di cui non sa ancora nulla.
Alle 2:30 della notte potrò liberarmi di questi tubi, far uscire le mie zampe e, dopo aver rapito la bambina , andare nel luogo prefissato. Speriamo vada tutto bene.
Partendo dall'inizio di un testo di Brown abbiamo inventato dei racconti di fantascienza.
La lavatrice stellare.
Il segreto è tutto nella dattina. Sulle prime la chiamarono adattina, ma ben presto lo abbreviarono in dattina. E’ quello che permette di adattarci. E così ho dovuto fare anche io quando sono scesa sulla terra.
In un tempo lontano,, sono venuta sulla terra, cosa proibita sul mio pianeta. Esso si trova sperduto nell’universo e sempre nascosto dietro la luna. E’ un pianeta piccolo. Le sue leggi sono dure e punitive se infrante, cosa che io ho fatto. Sono stata spinta a farlo, mossa dalla mia incontrollabile curiosità. Ho sempre amato le storie riguardanti la terra che gli anziani del mio popolo raccontavano. Così infatti decisi di andare e di scoprire tutto ciò che si celava in essa. Ma per farlo mi sono servita di una pillola, che permetteva di cammuffarsi in un tipico oggetto del pianeta in cui si desiderava andare. Infatti anche se sono una creatura spaziale non posso attraversare l’atmosfera della terra.
Rubai la pillola con facilità perché il guardiano che sorvegliava il luogo dove erano nascoste stava dormendo e gli allarmi erano disattivati per un breve lasso di tempo. La presi e viaggiai fino a che non mi trovai poco distante dalla terra; allora ingoiai la pastiglia: la mia aura viola sulle braccia cominciò a spegnersi . Chiusi gli occhi e mi sentii trasportare da una forza incontrollabile. Appena riaprii gli occhi mi ritrovai in un posto mai visto. C’erano tanti cesti e la stanza era alquanto piccola. Mi sentivo diversa, non sentivo gli arti e vedevo in modo strano. In un angolo notai uno specchio nel quale si vedeva un quadrato con una finestrella al centro: e ero io. Questo era l’oggetto comune della terra, una cosa bizzarra. Sentii dei passi: entrò una creatura umana. Provai un’immensa emozione. Si diresse verso di me, spostò il mio “occhio” e la mia prospettiva cambiò. Quando tornò normale poco dopo la mia vista si appannò: era una strana sostanza schiumosa. Sentivo delle grida e dei pianti dal piano di sotto probabilmente altre creature umane, ma non ci badai molto; ero così felice d essere riuscita nella mia impresa. L’effetto della pillola non si sapeva con certezza quanto durasse, ma di sicuro un lungo tempo. Avrei dovuto abituarmi a tutto questo e ne ero felice.
La lavatrice stellare.
Il segreto è tutto nella dattina. Sulle prime la chiamarono adattina, ma ben presto la abbreviarono in dattina. È quello che ci permette di adattarci.
Sono una lavatrice. Mi correggo; tutti mi considerano una lavatrice, ma c'è molto di più. Nascondo un segreto che non posso rivelare a nessuno.
Era il lontano 2003. Esattamente trentaquattro anni fa, l'uomo aveva messo piede sul nostro territorio. Con quello strano aggeggio, chiamato in termini terrestri “Apollo 11”, erano state distrutte migliaia di abitazioni. L'atterraggio lunare aveva causato la morte di molte vittime, tra le quali mia sorella. Mi ricordo ancora il mio radar che me lo aveva annunciato. Non vi perdonerò mai per quello che avete fatto. In quei trentaquattro anni avevo pensato ad un modo per vendicarmi e per evitare che potesse succedere un'altra volta una tragedia simile. È successa. Dicembre 1972: altre vittime e distruzioni. Dovevo fare qualcosa. Elaborai sempre di più l'idea di infiltrarmi come spia nel misterioso pianeta terra.
Primo gennaio 2003: i robot più esperti mi modificarono. Mi crearono più bassa e tozza; assunsi una forma quadrata. Mi inserirono delle tubature all'interno. Il mio ombelico esplose; diventò un cerchio perfetto che si poteva aprire e chiudere.
Giugno 2003 mi spediscono sulla Terra, in un negozio con oggetti simili a me. Altri invece, più alti e magri, erano chiamati aspirapolveri. A me diedero il nome di lavatrice. Fui acquistata da una coppia di sposi nell'agosto del 2003. Passati alcuni anni, la famiglia raddoppiò.
Con il tempo mi sono adattata alle loro abitudini: devo mettermi in funzione nel weekend. Una lavata di bianco, una di nero ed una sul rosso. Un giorno il bambino arrivato per secondo mi attaccò un adesivo rosso e bianco a forma di palla da calcio. Questo simbolo mi ha reso parte della famiglia.
La lavatrice stellare.
Il segreto è tutto nella dattina. Sulle prime la chiamarono adattina, ma ben presto lo adattarono in dattina. E’ quello che ci permette di adattarci.
Iniziò tutto 4 anni fa, quando a me e ai miei genitori venne detto che io sarei dovuta andare in un pianeta dove avevano trovato degli esseri viventi adatti ad un esperimento.
Partii un anno dopo circa, un anno ricco di test e prove, di esami e di regole, ma finalmente ero pronta.
Mi avevano detto che, per non farmi scoprire, sarei dovuta sembrare un oggetto che questi strani bipedi usano per lavare le tovaglie che si mettono addosso.
Avevamo già previsto tutto: avrei bevuto l’acqua che mi veniva immessa e avrei mangiato ogni tanto qualche calzino. Potevo sopravvivere.
Sono ormai passati tre anni da quando sono arrivata, e questo esperimento si sta per concludere.
Ammetto che un po’ mi mancherà la Terra, così si chiama questo pianeta, però sono felice di poter tornare a casa, chissà quante cose saranno cambiate!
Esattamente tra una settimana mi verranno a prendere, e dovrò portare con me la bambina della famiglia nella cui casa ho vissuto in questo periodo.
Rilasciavo nei suoi vestiti un po’ di dattina ogni volta, spero che non muoia e che sia pronta per l’esperimento, di cui non sa ancora nulla.
Alle 2:30 della notte potrò liberarmi di questi tubi, far uscire le mie zampe e, dopo aver rapito la bambina , andare nel luogo prefissato. Speriamo vada tutto bene.
Miti sulla nascita del Coronavirus:
Re Covid.
Re Covid era conosciuto in tutto il regno per la sua avarizia e freddezza: non voleva avere contatti con i suoi sudditi ed ogni suo gesto era dettato da egoismo e desiderio di potere. La vicinanza con gli altri gli era intollerabile e la sua unica fonte di piacere era il denaro e per questo motivo non aveva né amici né parenti. A causa di questa sua mania, iniziò ad alzare le tasse dei contadini in modo esagerato, così da aumentare la sua ricchezza. Gli agricoltori erano ormai ridotti in povertà, quando decisero di rivolgersi alla dea Euetheria, dea della gentilezza e della bontà d’animo. La dea, accogliendo le preghiere dei contadini, decise di punire re Covid, trasformandolo in un piccolo essere, poco più grande di un microbo, lasciandogli soltanto la corona, come segno della sua passata superbia.
Quando re Covid si rese conto di ciò che era diventato, girò per il palazzo per chiedere aiuto e sostegno, ma, non appena si avvicinava ai suoi sudditi e camerieri, questi cominciavano a scappare, in preda ad attacchi di tosse e febbre violente. Nessuno lo vedeva, nessuno lo sentiva, ma tutti impararono a stargli alla larga per evitare di essere contagiati. La gente stava a casa propria, evitando di andare a scuola, al lavoro o nei campi, diffidando di tutti e cercando di non parlare o avere contatti con nessuno. Ormai tutti mantenevano le distanze da re Covid, che era conosciuto come Coronavirus. Da questo stato di isolamento in cui si trovava, il re interrogò l’oracolo alla ricerca di una soluzione. La risposta fu molto semplice: se si vuole essere benvoluti bisogna aiutare il prossimo a propria volta.
Chi rompe paga!
Quando Demetra, dea della natura, si accorse che gli uomini stavano inquinando la terra e sfruttando a sproposito le sue risorse, domandò a Zeus il permesso di convocare un’assemblea nell’Olimpo. Aveva bisogno delle menti di tutti gli dei per far sì che la terra guarisse e che i comuni mortali avessero la loro punizione che sarebbe dovuta essere esemplare.
Dopo aver ricevuto il consenso di Zeus, Demetra mandò Ermes a portare l’invito alla riunione a tutti gli dei dell’Olimpo senza distinzioni di importanza. Ermes ubbidì e dopo poche ore l’Olimpo pullulava di decine di dei, perplessi per ciò che stava accadendo. Quando furono arrivati tutti, Demetra prese la parola e disse che, se non avessero fatto qualcosa al più presto, la terra sarebbe caduta in disgrazia a causa del comportamento irresponsabile degli uomini. Annunciò che ci voleva qualcosa di drastico che avrebbe cambiato radicalmente le vite delle persone almeno per un po’ di tempo.
Ogni dio e ogni dea aveva il diritto di proclamare la sua opinione proponendo una sua idea per il piano. Quando arrivò il turno di Nosema, dea della malattia, disse che lei avrebbe potuto fare in modo che un morbo molto contagioso si diffondesse in tutto il mondo costringendo gli uomini a restare a casa e quindi a non produrre più inquinamento. L’idea convinse tutti e fu approvata. Il piano era quello di andare nella città più inquinata del pianeta, Wuhan, in Cina, e vendere liquori e vini avvelenati durante un importante ricevimento ufficiale nel quale ci sarebbero stati moltissimi invitati.
Il fatidico giorno arrivò e Nosema scese nel mondo dei mortali sotto copertura, si intrufolò al banchetto e cominciò a distribuire bevande avvelenate.
Circa una settimana dopo, giunse notizia agli dei che tutta la città di Wuhan era stata colpita da un virus molto contagioso, chiamato Coronavirus, che veniva trasmesso per via aerea. Per evitare l’incremento dei contagi, tutta la popolazione del centro abitato, dovette restare a casa in quarantena e di conseguenza tutte le industrie dovettero temporaneamente restare chiuse.
Circa un mese dopo l’accaduto, gli dei vennero a conoscenza del fatto che il virus si era propagato in tutta la Cina, e non solo: infatti cominciavano ad emergere i primi casi anche in Europa soprattutto in Italia. A poco a poco tutto il mondo fu infettato dal Coronavirus e quindi la chiusura temporanea delle industrie divenne in modo globale.
Gli dei non potevano sperare di meglio perché, in quei mesi di quarantena, la natura rinacque e gli uomini capirono che era importantissimo tutelare l’ambiente per non pagare conseguenze inaccettabili.
Kakòn.
Lontano, molto lontano nel tempo, esisteva un dio chiamato Kakòn. D’aspetto era un denso fumo color violaceo, continuamente cangiante nella forma. A differenza degli altri dei non favoriva l’umanità, ma la ostacolava continuamente.
Gli uomini, stanchi del suo comportamento, smisero di raccontare e di tramandare la sua storia e così Kakòn venne dimenticato. Il dio, offeso, si rifugiò al di fuori della Terra, su una stella ormai spenta. Lì, al contrario di ciò che accadeva agli dei dimenticati, rimase in vita, alimentato dal male degli uomini stessi. Dall’alto osservava i loro comportamenti e a ogni loro azione malvagia il male da lui conservato aumentava.
Passati i millenni, i secoli e gli anni, il male cresceva sempre di più. Kakòn, non potendolo più trattenere, decise di rigettarlo contro gli uomini, facendosi di nuovo sentire. Venne scagliato sotto forma di una sfera che avvicinandosi alla Terra divenne una fitta pioggia viola che colpì contemporaneamente ogni superficie del pianeta. Le gocce di questa pioggia contenevano un nuovo male: una malattia, chiamata dagli uomini Covid-19.
I mortali, all’inizio spaesati, compresero che questa sofferenza non era altro che la somma dei mali da loro provocati negli anni e che quindi l’unico antidoto possibile era smettere di compiere atti malvagi e volgersi al bene
L’arcobaleno.
L’arcobaleno, un fenomeno naturale a dir poco favoloso…Per millenni intere popolazioni hanno lodato questo fenomeno, dagli antichi greci, ai romani, e così via.
A rendere possibile questo spettacolo è la dea dell’arcobaleno: Iride. Dopo il temporale, utilizzando i suoi poteri e la luce del sole, dà vita a tale meraviglia.
Nell’ultimo secolo però, a causa dell’inquinamento, l’arcobaleno era sempre meno visibile in cielo, coperto dallo smog. Per questo motivo gli uomini iniziarono a perdere interesse verso tale fenomeno, tanto da dimenticarsi della dea Iride. La povera dea, indignata, decise così di andarsi a lamentare con il re degli dei dell’Olimpo: Zeus.
Lo implorò di fare qualcosa per salvare gli arcobaleni; inizialmente Zeus propose di eliminare tutti i mortali, così superbi da pensarsi padroni del mondo e non parte di quella natura calpestata e ignorata, ma Iride si oppose perchè senza di loro chi avrebbe ammirato gli arcobaleni?
Così a Zeus venne un’altra idea. Fece chiamare il dio Apollo, divinità del sole, della medicina e delle malattie. Gli chiese di lanciare un virus che si sarebbe diffuso in tutto il mondo, costringendo la gente a rimanere a casa: il covid 19.
Il virus si diffuse velocemente e per molti fu letale. La gente, costretta a stare in casa, iniziò a capire la bellezza della natura e dei fenomeni naturali.
L’arcobaleno diventò simbolo di speranza. In quel periodo ogni famiglia aveva attaccato un cartello fuori casa con la scritta “Andrà tutto bene” e il disegno di un arcobaleno.
Zeus disse che il virus se ne sarebbe andato solo quando l’umanità si sarebbe accorta del male che stava facendo alla natura e avrebbe riacquistato il rispetto per il delicato equilibrio della terra.
L’ira di Igea.
Gli uomini del pianeta Terra non avevano più rispetto: né per loro stessi, né per i loro simili, gli animali.
Artemide, la dea degli animali, mandò un avviso, ma gli uomini non vollero ascoltarla. Igea, figlia di Asclepio, dio della medicina e stretta amica di Artemide, essendo la dea della malattia, punì tutti gli uomini del pianeta con un virus estremamente infettivo, chiamato anche Coronavirus, che nel giro di una giornata avrebbe infettato tutti: dalle coste alle montagne, dai deserti alle calotte polari.
Gli uomini morivano e la potenza di Igea era implacabile, ma le foreste, nel frattempo si ripopolavano di animali in libertà, proprio come Artemide avrebbe voluto.
Atena suggerì agli uomini che avrebbero dovuto alla sobrietà per far cessare l’ira di Igea. Essi ascoltarono il consiglio della saggia dea, pertanto Igea decise di arrestare la diffusione della pandemia.
Ade, sentendosi privato della sua potenza, giacchè gli uomini non morivano più, rapì Igea, costringendola a diffondere nuovamente il morbo tra gli uomini.
Asclepio quindi, il padre della dea, scese negli Inferi per trattare con Ade, che si rifiutò di liberare Igea. Dopo svariate preghiere si venne a un patto: nel periodo più caldo dell’anno, nel quale la malattia cessa la sua propagazione, Igea tornerà sulla terra; nel periodo più freddo invece, la figlia divina dovrà tornare negli Inferi con Ade per propagare il morbo.
Gli uomini, sostenuti da Atena e Asclepio, continuano la loro resistenza contro l’oscuro progetto di Ade.
Re Covid.
Re Covid era conosciuto in tutto il regno per la sua avarizia e freddezza: non voleva avere contatti con i suoi sudditi ed ogni suo gesto era dettato da egoismo e desiderio di potere. La vicinanza con gli altri gli era intollerabile e la sua unica fonte di piacere era il denaro e per questo motivo non aveva né amici né parenti. A causa di questa sua mania, iniziò ad alzare le tasse dei contadini in modo esagerato, così da aumentare la sua ricchezza. Gli agricoltori erano ormai ridotti in povertà, quando decisero di rivolgersi alla dea Euetheria, dea della gentilezza e della bontà d’animo. La dea, accogliendo le preghiere dei contadini, decise di punire re Covid, trasformandolo in un piccolo essere, poco più grande di un microbo, lasciandogli soltanto la corona, come segno della sua passata superbia.
Quando re Covid si rese conto di ciò che era diventato, girò per il palazzo per chiedere aiuto e sostegno, ma, non appena si avvicinava ai suoi sudditi e camerieri, questi cominciavano a scappare, in preda ad attacchi di tosse e febbre violente. Nessuno lo vedeva, nessuno lo sentiva, ma tutti impararono a stargli alla larga per evitare di essere contagiati. La gente stava a casa propria, evitando di andare a scuola, al lavoro o nei campi, diffidando di tutti e cercando di non parlare o avere contatti con nessuno. Ormai tutti mantenevano le distanze da re Covid, che era conosciuto come Coronavirus. Da questo stato di isolamento in cui si trovava, il re interrogò l’oracolo alla ricerca di una soluzione. La risposta fu molto semplice: se si vuole essere benvoluti bisogna aiutare il prossimo a propria volta.
Chi rompe paga!
Quando Demetra, dea della natura, si accorse che gli uomini stavano inquinando la terra e sfruttando a sproposito le sue risorse, domandò a Zeus il permesso di convocare un’assemblea nell’Olimpo. Aveva bisogno delle menti di tutti gli dei per far sì che la terra guarisse e che i comuni mortali avessero la loro punizione che sarebbe dovuta essere esemplare.
Dopo aver ricevuto il consenso di Zeus, Demetra mandò Ermes a portare l’invito alla riunione a tutti gli dei dell’Olimpo senza distinzioni di importanza. Ermes ubbidì e dopo poche ore l’Olimpo pullulava di decine di dei, perplessi per ciò che stava accadendo. Quando furono arrivati tutti, Demetra prese la parola e disse che, se non avessero fatto qualcosa al più presto, la terra sarebbe caduta in disgrazia a causa del comportamento irresponsabile degli uomini. Annunciò che ci voleva qualcosa di drastico che avrebbe cambiato radicalmente le vite delle persone almeno per un po’ di tempo.
Ogni dio e ogni dea aveva il diritto di proclamare la sua opinione proponendo una sua idea per il piano. Quando arrivò il turno di Nosema, dea della malattia, disse che lei avrebbe potuto fare in modo che un morbo molto contagioso si diffondesse in tutto il mondo costringendo gli uomini a restare a casa e quindi a non produrre più inquinamento. L’idea convinse tutti e fu approvata. Il piano era quello di andare nella città più inquinata del pianeta, Wuhan, in Cina, e vendere liquori e vini avvelenati durante un importante ricevimento ufficiale nel quale ci sarebbero stati moltissimi invitati.
Il fatidico giorno arrivò e Nosema scese nel mondo dei mortali sotto copertura, si intrufolò al banchetto e cominciò a distribuire bevande avvelenate.
Circa una settimana dopo, giunse notizia agli dei che tutta la città di Wuhan era stata colpita da un virus molto contagioso, chiamato Coronavirus, che veniva trasmesso per via aerea. Per evitare l’incremento dei contagi, tutta la popolazione del centro abitato, dovette restare a casa in quarantena e di conseguenza tutte le industrie dovettero temporaneamente restare chiuse.
Circa un mese dopo l’accaduto, gli dei vennero a conoscenza del fatto che il virus si era propagato in tutta la Cina, e non solo: infatti cominciavano ad emergere i primi casi anche in Europa soprattutto in Italia. A poco a poco tutto il mondo fu infettato dal Coronavirus e quindi la chiusura temporanea delle industrie divenne in modo globale.
Gli dei non potevano sperare di meglio perché, in quei mesi di quarantena, la natura rinacque e gli uomini capirono che era importantissimo tutelare l’ambiente per non pagare conseguenze inaccettabili.
Kakòn.
Lontano, molto lontano nel tempo, esisteva un dio chiamato Kakòn. D’aspetto era un denso fumo color violaceo, continuamente cangiante nella forma. A differenza degli altri dei non favoriva l’umanità, ma la ostacolava continuamente.
Gli uomini, stanchi del suo comportamento, smisero di raccontare e di tramandare la sua storia e così Kakòn venne dimenticato. Il dio, offeso, si rifugiò al di fuori della Terra, su una stella ormai spenta. Lì, al contrario di ciò che accadeva agli dei dimenticati, rimase in vita, alimentato dal male degli uomini stessi. Dall’alto osservava i loro comportamenti e a ogni loro azione malvagia il male da lui conservato aumentava.
Passati i millenni, i secoli e gli anni, il male cresceva sempre di più. Kakòn, non potendolo più trattenere, decise di rigettarlo contro gli uomini, facendosi di nuovo sentire. Venne scagliato sotto forma di una sfera che avvicinandosi alla Terra divenne una fitta pioggia viola che colpì contemporaneamente ogni superficie del pianeta. Le gocce di questa pioggia contenevano un nuovo male: una malattia, chiamata dagli uomini Covid-19.
I mortali, all’inizio spaesati, compresero che questa sofferenza non era altro che la somma dei mali da loro provocati negli anni e che quindi l’unico antidoto possibile era smettere di compiere atti malvagi e volgersi al bene
L’arcobaleno.
L’arcobaleno, un fenomeno naturale a dir poco favoloso…Per millenni intere popolazioni hanno lodato questo fenomeno, dagli antichi greci, ai romani, e così via.
A rendere possibile questo spettacolo è la dea dell’arcobaleno: Iride. Dopo il temporale, utilizzando i suoi poteri e la luce del sole, dà vita a tale meraviglia.
Nell’ultimo secolo però, a causa dell’inquinamento, l’arcobaleno era sempre meno visibile in cielo, coperto dallo smog. Per questo motivo gli uomini iniziarono a perdere interesse verso tale fenomeno, tanto da dimenticarsi della dea Iride. La povera dea, indignata, decise così di andarsi a lamentare con il re degli dei dell’Olimpo: Zeus.
Lo implorò di fare qualcosa per salvare gli arcobaleni; inizialmente Zeus propose di eliminare tutti i mortali, così superbi da pensarsi padroni del mondo e non parte di quella natura calpestata e ignorata, ma Iride si oppose perchè senza di loro chi avrebbe ammirato gli arcobaleni?
Così a Zeus venne un’altra idea. Fece chiamare il dio Apollo, divinità del sole, della medicina e delle malattie. Gli chiese di lanciare un virus che si sarebbe diffuso in tutto il mondo, costringendo la gente a rimanere a casa: il covid 19.
Il virus si diffuse velocemente e per molti fu letale. La gente, costretta a stare in casa, iniziò a capire la bellezza della natura e dei fenomeni naturali.
L’arcobaleno diventò simbolo di speranza. In quel periodo ogni famiglia aveva attaccato un cartello fuori casa con la scritta “Andrà tutto bene” e il disegno di un arcobaleno.
Zeus disse che il virus se ne sarebbe andato solo quando l’umanità si sarebbe accorta del male che stava facendo alla natura e avrebbe riacquistato il rispetto per il delicato equilibrio della terra.
L’ira di Igea.
Gli uomini del pianeta Terra non avevano più rispetto: né per loro stessi, né per i loro simili, gli animali.
Artemide, la dea degli animali, mandò un avviso, ma gli uomini non vollero ascoltarla. Igea, figlia di Asclepio, dio della medicina e stretta amica di Artemide, essendo la dea della malattia, punì tutti gli uomini del pianeta con un virus estremamente infettivo, chiamato anche Coronavirus, che nel giro di una giornata avrebbe infettato tutti: dalle coste alle montagne, dai deserti alle calotte polari.
Gli uomini morivano e la potenza di Igea era implacabile, ma le foreste, nel frattempo si ripopolavano di animali in libertà, proprio come Artemide avrebbe voluto.
Atena suggerì agli uomini che avrebbero dovuto alla sobrietà per far cessare l’ira di Igea. Essi ascoltarono il consiglio della saggia dea, pertanto Igea decise di arrestare la diffusione della pandemia.
Ade, sentendosi privato della sua potenza, giacchè gli uomini non morivano più, rapì Igea, costringendola a diffondere nuovamente il morbo tra gli uomini.
Asclepio quindi, il padre della dea, scese negli Inferi per trattare con Ade, che si rifiutò di liberare Igea. Dopo svariate preghiere si venne a un patto: nel periodo più caldo dell’anno, nel quale la malattia cessa la sua propagazione, Igea tornerà sulla terra; nel periodo più freddo invece, la figlia divina dovrà tornare negli Inferi con Ade per propagare il morbo.
Gli uomini, sostenuti da Atena e Asclepio, continuano la loro resistenza contro l’oscuro progetto di Ade.
Primo giorno di scuola:
Vita da zaini.
Sono ormai 5 mesi che sono chiuso nell’armadio, ma finalmente, il giorno che più ho atteso è arrivato. Oggi, 14 settembre 2020, dopo un lungo periodo di didattica a distanza, causata dalla pandemia mondiale di Covid-19, e le vacanze estive, è giunto il momento di fare ritorno tra le mura scolastiche, per iniziare un nuovo anno denso di emozioni e cambiamenti. Infatti quest’anno non verro più portato a scuola nel piccolo paese dove io e Gloria viviamo, ma nella città di Varese. In questo luogo i palazzi e le case sfiorano quasi il cielo, e i negozi, pieni di vestiti, libri e cianfrusaglie varie si trovano dietro ogni angolo. La tranquillità è uno stato quasi del tutto sconosciuto, perché sempre sovrastato dalla frenesia e dalla fretta di tutti i frequentatori della città. Da quest’anno, infatti, Gloria frequenterà le scuole superiori al Liceo classico “Ernesto Cairoli”, ed io sono incaricato di consolarla, confortarla, esultare con lei nei momenti di gioia, accompagnarla in questo nuovo cammino e, più concretamente, portare il materiale di cui necessita. Non credevo sarebbe mai potuto arrivare un momento i cui dalle mie cerniere sarebbero potute uscire queste parole. Mi sono mancati così tanto pure i libri e quaderni, così altezzosi e pieni di sé, perché stracolmi di informazioni, l’astuccio sempre troppo pieno di penne e pennine che però non vengono mai usate e il diario, ansioso come pochi, a causa di tutti gli impegni e le scadenze che vengono segnate sopra.
Sono più o meno le sette, quando Gloria mi prende al volo e comincia così la nostra corsa verso la scuola. Tutto è diverso dal solito, infatti il viaggio dura più o meno mezz’oretta, mentre di solito; ci impiegavamo non più di cinque minuti ad arrivare a destinazione. Durante il tragitto comincio a sentire le farfalle nello stomaco e l’ansia che sale sempre di più; ma a quanto pare non sono proprio l’unico, lei infatti mi sta tenendo stretto a sé e quando lo fa, significa solo una cosa: è molto preoccupata, ma al contempo curiosa e felice.
Una volta arrivati a scuola e seduti al nostro banco, le ore passano velocissime, ed è già arrivato il momento di far ritorno a casa.
Fino a qui è andato tutto liscio, e penso rimanga così per tutto il giorno, ma invece… usciti da scuola camminiamo velocemente fino al capolinea dei pullman, aspettiamo qualche minuto e poi finalmente possiamo salire sul mezzo che ci riporterà nel nostro paesino. Ma tutto non sta andando come pensavo: infatti una volta saliti ci tocca stare in piedi, perché i posti sono tutti già occupati. E poi via, l’autobus parte ed io, come tutti quanti i miei coetanei zaini, veniamo sbatacchiati qua e là, tra le schiene dei nostri padroni e i vari ostacoli che ci troviamo davanti! Finalmente rieccoci a casa, esausti da questa mattinata ma felici e desiderosi di viverne ancora tante come questa!
Vita da zaini.
Sono ormai 5 mesi che sono chiuso nell’armadio, ma finalmente, il giorno che più ho atteso è arrivato. Oggi, 14 settembre 2020, dopo un lungo periodo di didattica a distanza, causata dalla pandemia mondiale di Covid-19, e le vacanze estive, è giunto il momento di fare ritorno tra le mura scolastiche, per iniziare un nuovo anno denso di emozioni e cambiamenti. Infatti quest’anno non verro più portato a scuola nel piccolo paese dove io e Gloria viviamo, ma nella città di Varese. In questo luogo i palazzi e le case sfiorano quasi il cielo, e i negozi, pieni di vestiti, libri e cianfrusaglie varie si trovano dietro ogni angolo. La tranquillità è uno stato quasi del tutto sconosciuto, perché sempre sovrastato dalla frenesia e dalla fretta di tutti i frequentatori della città. Da quest’anno, infatti, Gloria frequenterà le scuole superiori al Liceo classico “Ernesto Cairoli”, ed io sono incaricato di consolarla, confortarla, esultare con lei nei momenti di gioia, accompagnarla in questo nuovo cammino e, più concretamente, portare il materiale di cui necessita. Non credevo sarebbe mai potuto arrivare un momento i cui dalle mie cerniere sarebbero potute uscire queste parole. Mi sono mancati così tanto pure i libri e quaderni, così altezzosi e pieni di sé, perché stracolmi di informazioni, l’astuccio sempre troppo pieno di penne e pennine che però non vengono mai usate e il diario, ansioso come pochi, a causa di tutti gli impegni e le scadenze che vengono segnate sopra.
Sono più o meno le sette, quando Gloria mi prende al volo e comincia così la nostra corsa verso la scuola. Tutto è diverso dal solito, infatti il viaggio dura più o meno mezz’oretta, mentre di solito; ci impiegavamo non più di cinque minuti ad arrivare a destinazione. Durante il tragitto comincio a sentire le farfalle nello stomaco e l’ansia che sale sempre di più; ma a quanto pare non sono proprio l’unico, lei infatti mi sta tenendo stretto a sé e quando lo fa, significa solo una cosa: è molto preoccupata, ma al contempo curiosa e felice.
Una volta arrivati a scuola e seduti al nostro banco, le ore passano velocissime, ed è già arrivato il momento di far ritorno a casa.
Fino a qui è andato tutto liscio, e penso rimanga così per tutto il giorno, ma invece… usciti da scuola camminiamo velocemente fino al capolinea dei pullman, aspettiamo qualche minuto e poi finalmente possiamo salire sul mezzo che ci riporterà nel nostro paesino. Ma tutto non sta andando come pensavo: infatti una volta saliti ci tocca stare in piedi, perché i posti sono tutti già occupati. E poi via, l’autobus parte ed io, come tutti quanti i miei coetanei zaini, veniamo sbatacchiati qua e là, tra le schiene dei nostri padroni e i vari ostacoli che ci troviamo davanti! Finalmente rieccoci a casa, esausti da questa mattinata ma felici e desiderosi di viverne ancora tante come questa!